Incipit del Monologion

Monologion

la prova a-posteriori dell'esistenza di Dio

PROLOGO

Alcuni confratelli mi pregarono ripetutamente e con insistenza di scrivere per loro, come esempio di meditazione, le cose che avevo loro esposto, parlando con linguaggio usuale, intorno all'essenza di Dio e ad alcuni altri argomenti connessi con questa meditazione. E, badando più al loro desiderio che alla difficoltà della cosa o alla mia possibilità, mi prescrissero questo metodo nello scrivere la meditazione: che nulla vi fosse persuaso con l’autorità della Scrittura, ma tutto ciò che si concludesse in ogni singola investigazione fosse dimostrato brevemente con argomenti necessari e manifestato apertamente dalla luce della verità; e tutto ciò con stile piano e argomenti accessibili a tutti e con semplice discussione. Vollero pure che non trascurassi di risolvere le obiezioni che si potessero presentare, anche le più semplici e apparentemente sciocche.

Per un pezzo rifiutai di tentare l’impresa, e, paragonando le mie forze alla difficoltà dell’opera da compiere, cercai di esimermi adducendo scuse. Quanto più infatti mi chiedevano una cosa facile per loro, tanto più imponevano un compito difficile a me. Alla fine, tuttavia, vinto e dalla modesta importunità delle loro preghiere e dalla bontà del loro intento, che non poteva esser tenuto in poco conto, mi accinsi a scrivere ciò che mi chiedevano, contro voglia per la difficoltà dell’argomento e per la debolezza del mio ingegno; ma lo portai a termine volentieri per la loro carità, seguendo per quanto mi fu possibile le loro prescrizioni. Vi fui indotto dalla speranza che il mio scritto fosse noto solo a coloro che me lo chiedevano, e di lì a poco venisse a noia a loro stessi, come cosa di poco conto, e seppellito nell'oblio.

Ho coscienza, infatti, di non essere riuscito a soddisfare i loro desideri, ma solo di aver posto fine alle loro richieste. Invece, non so come, oltre ogni mia speranza, accadde che non solo quei confratelli, ma anche molti altri, copiandosi ognuno lo scritto, se lo studiassero a memoria. Rividi spesso il mio scritto, e non vi trovai nulla che non si accordasse con gli scritti dei Padri cattolici e specialmente di S. Agostino. Perciò, se ad alcuno sembrasse che in questo opuscolo io abbia detto qualcosa di troppo nuovo o contrario alla verità, lo prego di non proclamarmi subito presuntuoso assertore di novità o di falsità, ma di guardare prima attentamente il De Trinitate di S. Agostino e poi di giudicare in base a questo il mio opuscolo. Quando infatti ho detto che la Somma Trinità può esser detta tre sostanze ho seguito i Padri greci, che affermano esservi tre sostanze in una sola persona professando la medesima fede con la quale noi affermiamo tre persone in una sola sostanza. Infatti, col termine sostanza significano in Dio quello che significhiamo noi col termine persona.

Tutto ciò che ho detto, poi, impersonando uno che discute mentalmente fra sé e ricerca quello di cui prima non si era reso conto, è stato esposto così come sapevo che volevano coloro al cui desiderio intendevo di piegarmi. Prego poi e scongiuro di cuore chi volesse trascrivere questo opuscolo di premettere ai capitoli, in capo al libro, questa prefazione. Penso infatti che molto giovi alla comprensione di ciò che vi leggerà il sapere con quale intenzione e in che modo è stato scritto. E credo anche che, se uno vedrà prima questa prefazione, non giudicherà temerariamente se vi troverà esposto qualche cosa di contrario alla sua opinione.

I. VI È UN ENTE OTTIMO E MASSIMO E PIÙ ALTO DI TUTTO CIÒ CHE ESISTE.

Se uno, o per non averlo udito o perché non crede a ciò che ha udito, ignora che vi è una natura più alta di tutto ciò che esiste, a sé sufficiente nella sua eterna beatitudine, che dà a tutte le altre cose l’essere e le fa in qualche modo buone con la sua onnipotente bontà; e ignora altresì le molte altre verità che dobbiamo credere di Dio o della creazione: credo che di queste stesse cose possa almeno convincersi, se è appena di mediocre ingegno, con la sola ragione. Potrà farlo in molti modi, ma io glie ne proporrò uno, che giudico essere a più facile portata. Infatti, poiché tutti desiderano godere soltanto di quelle cose che reputano buone, è ovvio che una volta o l’altra si rivolga l'occhio della mente a ricercare ciò onde sono buone le cose che si desiderano proprio perché si giudicano buone; affinché poi, sotto la guida della ragione, e proseguendo verso le cose che irragionevolmente si ignorano, si proceda ragionevolmente.

In questa ricerca, tuttavia, se avrò detto qualcosa che non sia suffragato da una più alta autorità, voglio sia inteso così che, sebbene sia concluso come necessario dalle ragioni che mi parranno buone, non si dica che è assolutamente necessario, ma soltanto probabile.

È facile dunque che uno tacitamente dica fra sé: poiché vi sono beni così innumerevoli, di cui sperimentiamo coi sensi e discerniamo con la ragione la grandissima diversità, è da credere che vi sia un ente solo, in virtù del quale sia buono tutto ciò che è buono; o alcuni beni son beni in virtù di una cosa, altri in virtù di un’altra ? È invero certissimo e chiaro per tutti quelli che vogliono prestarvi attenzione, che tutto ciò che si dice tale, in modo che in rapporto con altri si dica più o meno o egualmente tale, è tale in virtù di qualcosa che non è diverso nelle diverse cose, ma identico. Infatti, tutte le cose che son dette giuste, siano esse ugualmente, più o meno giuste le une delle altre, non possono esser concepite tali se non in virtù di una sola giustizia che non sia diversa nelle diverse cose.

Dunque, poiché è certo che tutte le cose buone, se sono paragonate fra loro, sono ugualmente o inegualmente buone, è necessario che tutte siano buone per qualche cosa che è concepita identica in loro, sebbene talora alcune cose sembrino esser dette buone per un motivo, altre per un altro. Per un motivo, infatti, sembra esser detto buono il cavallo quando è forte e per un altro quando è veloce. Lo si dice infatti buono per la forza e buono per la velocità, e tuttavia non sono la medesima cosa forza e velocità. Ma se il cavallo è buono perché è forte e veloce, come mai è cattivo un ladro forte e veloce? O piuttosto, come un ladro forte e veloce è cattivo perché è dannoso, così un cavallo forte e veloce è buono perché è utile. Nulla invero si suol reputare buono se non o per l’utilità, come si dice buona la salute e ciò che ad essa giova, o per il valore intrinseco, come si stima buona la bellezza e ciò che ad essa giova.

Ma poiché l’argomento sopra addotto non si può infirmare, anche tutto ciò che è utile o ha valore in sé se davvero è un bene, deve esser bene in virtù di quella stessa cosa, qualunque essa sia, per la quale ogni cosa è buona. Ora chi potrebbe negare che ciò in virtù di cui tutte le cose sono buone debba essere un gran bene? Questo dunque è bene per se stesso, poiché ogni cosa è buona per esso. Dunque ne consegue che tutti gli altri beni derivano da altro, e quello solo è per se stesso. Ma un bene che deriva da un altro non può essere né eguale né maggiore di ciò che è bene per sé. È dunque sommo bene soltanto ciò che è bene per sé; poiché il sommo è ciò che sovrasta agli altri, sì da non avere né pari né migliore di sé. Ora ciò che è sommamente buono è anche sommamente grande. Vi è dunque un ente sommamente buono e sommamente grande, ossia. più grande di tutto ciò che esiste.

II. ANCORA SUL MEDESIMO ARGOMENTO.

Come si è concluso che vi è un sommo bene, poiché tutte le cose buone sono buone in virtù di un unico bene, che è bene per se stesso: così si conclude necessariamente che vi deve essere un ente sommamente grande, poiché tutto ciò che è grande è tale in virtù di un unico ente che è grande per se stesso. Grande, dico, non nello spazio, come i corpi; ma nel senso-che, quanto è più grande, tanto è migliore o più degno, come si dice della sapienza. E poiché non può essere sommamente grande se non ciò che è sommamente buono, è necessario che esista un ente massimo e ottimo, ossia più grande di tutto ciò che esiste.

III. Vi È UNA NATURA IN VIRTÙ DELLA QUALE ESISTE TUTTO CIÒ CHE È, NATURA CHE È PER SE STESSA, ED È L'ENTE PIÙ GRANDE DI TUTTO CIÒ CHE ESISTE.

Infine, non solo tutti i beni sono tali in virtù di un medesimo bene, e tutte le cose grandi sono tali in virtù di una medesima grandezza, ma tutto ciò che è, esiste in virtù di un unico ente. Infatti, tutto ciò che è, o esiste in virtù di qualche cosa o in virtù di nulla. Ma nulla esiste in virtù di nulla. Non si può infatti neppur pensare che qualche cosa esista se non in virtù di una realtà. Dunque tutto ciò che è, esiste in virtù di qualche cosa. Ora, se è così, l’ente in virtù del quale esiste tutto ciò che esiste, o è unico o è molteplice. Se è molteplice, o i molti si riferiscono a un unico ente in virtù del quale esistono, o fanno ognuno per se stesso, 0 esistono uno in virtù dell’altro. Ma, se i molti esistono in virtù di un unico ente, allora non è più vero che tutte le cose esistono in virtù di molti, ma piuttosto esistono in virtù di quell’unico, per cui sono i molti. Se poi i molti esistono ognuno per sé, vi è allora una forza o natura di esistere per sé, che essi debbono avere per potere essere per sé; ora non vi è dubbio che esistano in virtù di quell’uno, da cui hanno di esistere per sé.

Tutte le cose, dunque, esistono in modo più vero per quell’uno che non per quei molti che non potrebbero essere senza quell’uno. Che poi i molti siano uno in virtù dell’altro non è ammissibile per nessuna ragione, poiché è irragionevole pensare che una cosa sia in virtù di ciò a cui dà l’essere. Infatti, neppure le cose relative sono luna per l’altra in questo modo. Padrone e servo, infatti, sono l’uno relativo all’altro, ma gli uomini che sono in questa relazione non sono uomini l’uno in virtù dell’altro, e le stesse relazioni di padronanza e di servitù non sono affatto l’una in forza dell’altra, perché esistono in quanto esistono i soggetti che sono in relazione fra loro. Poiché, dunque, la verità esclude che vi siano più enti in virtù dei quali esistano tutte le cose, è necessario che sia uno solo quell’ente in forza del quale esistono tutte le cose che sono. È siccome tutte le cose esistono in forza dello stesso unico ente, certamente quest’uno è per se stesso.

Dunque tutte le altre cose esistono in virtù di altro, e quello solo è per se stesso. Ma tutto ciò che esiste in virtù di altro è inferiore a quello per cui esistono tutte le altre cose e che, solo, esiste per sé. Perciò quello che esiste per sé è il più grande di tutti. Vi è dunque qualche cosa che, sola, è il massimo e il sommo ente. Ma ciò che è massimo, e in virtù del quale esiste tutto ciò che è buono e grande e, in genere, tutto ciò che ha una realtà, deve essere sommamente buono e sommamente grande e al di sopra di tutto ciò che esiste. Perciò vi è un ente che, si dica essenza o sostanza o natura, è ottimo e massimo e al di sopra di tutto ciò che esiste.

IV. SUL MEDESIMO ARGOMENTO.

Inoltre, se uno osserva le nature delle cose, si accorge, voglia o non voglia, che non tutte sono sul medesimo piano di valore, ma che alcune di esse si distinguono per una differenza di gradi. Chi infatti dubitasse che il cavallo per sua natura è migliore del legno, e l’uomo migliore del cavallo, non è degno di esser chiamato uomo. Poiché dunque non si può negare che alcune nature siano migliori di altre, la ragione ci persuade che una supera le altre, sì da non averne alcuna superiore a sé. Se infatti una tale distinzione di gradi fosse infinita e non vi fosse nessun grado superiore, del quale non si potesse assegnarne uno più alto, la ragione sarebbe condotta ad ammettere che la moltitudine di quelle nature non avrebbe fine. E bisogna essere troppo stolti per non giudicare assurda questa conclusione. Vi è dunque necessariamente una natura che è superiore a un’altra o a molte altre, sì da non essere inferiore ad alcuna.

Ma questa natura che è tale, o è unica o è una molteplicità di enti uguali. Ora, se sono molti e uguali, poiché non possono essere uguali per caratteri diversi, ma debbono esserlo per un carattere identico, quell’uno per cui sono ugualmente grandi o si identifica con loro ed è la loro stessa essenza, o è diverso. Ma se è la loro stessa essenza, siccome le loro essenze non sono molte, ma una sola, così anche quelle nature non saranno molte, ma una sola. Intendo infatti la stessa cosa per natura e per essenza. Se invece ciò per cui quelle molte nature sono grandi è diverso dalla loro essenza, allora esse sono inferiori a ciò per cui sono grandi. Tutto ciò, infatti, che è grande in virtù di un altro è inferiore a ciò per cui è grande. E allora non sono così grandi che non vi sia nulla di maggiore a loro. Se poi le molteplici nature delle quali nulla possa essere migliore non possono essere tali né per la loro essenza né per altro, allora a nessun patto vi possono essere molte nature di questo tipo. Resta dunque che vi sia una sola natura, così superiore alle altre da non essere inferiore a nessuna. Ma una tal cosa è la più grande e la migliore di tutte. Vi è dunque una natura che è il sommo ente.

Ora non può essere tale se non è per sé ciò che è, e se tutte le altre cose non sono ciò che sono in virtù di lei. Infatti, poiché poco fa la ragione ci ha insegnato che ciò che è per sé, e in virtù del quale è tutto il resto, è il sommo ente: o, reciprocamente, il sommo ente è per sé, e tutte le altre cose sono iù virtù di lui, o vi saranno parecchi sommi enti. Ma è manifesto che non ci sono parecchi sommi enti. Perciò esiste una natura o sostanza o essenza che è per sé buona e grande ed è per sé tutto ciò che è, in virtù della quale esiste tutto ciò che è veramente buono o grande o comunque è qualche cosa, e tale natura o essenza è il sommo bene, la somma grandezza, il sommo ente o esistente, cioè la più alta realtà.

V. COME LA SOMMA NATURA È PER SÉ, E LE ALTRE COSE SONO IN VIRTÙ DI LEI, COSÌ È DA SÉ, E LE ALTRE COSE DERIVANO DA LET.

Poiché approviamo quel che si è concluso sopra, occorre indagare se questa stessa natura e tutto ciò che esiste derivi da lei!, così come si è detto che esiste in virtù di lei ?. Ora è chiaro che tutto ciò che deriva da una cosa esiste anche in virtù di essa, e ciò che esiste in virtù di una cosa deriva da questa È; così come si può dire che ciò che procede da una materia ed è in virtù di un artefice, è in virtù di una materia e procede da un artefice, poiché è in virtù di entrambi e da entrambi procede; il che vuol dire: dall'uno e dall’altro ha l'essere, sebbene in altro modo sia da e in virtù della materia e in altro sia da e in virtù dell’artefice. Ne segue dunque che, come tutte le cose sono quel che sono in virtù della somma natura, e perciò questa è per se stessa e le altre cose sono in virtù di altro, così tutte le cose derivano da quella medesima somma natura, e perciò questa è da sé, le altre cose sono da altro.

VI. LA SOMMA NATURA NON FU CONDOTTA ALL’ESSERE IN VIRTÙ DI UNA CAUSA, E TUTTAVIA NON È DAL NULLA O IN VIRTÙ DI NULLA. COME SI PUÒ INTENDERE CHE ESSA È PER SÉ E DA SÉ.

Poiché dunque il termine essere in virtù di una cosa o essere da una cosa non ha sempre il medesimo significato, bisogna indagare più accuratamente in che modo tutte le cose siano in virtù della somma natura o derivino da lei. E poiché ciò che è per se stesso e ciò che è per altro non hanno lo stesso modo di esistere, esaminiamolo partitamente, prima della somma natura, che è per sé, e poi delle altre cose, che sono per altro. Poiché dunque si è stabilito che quella è per se stessa tutto ciò che è, e tutte le altre cose sono quelle che sono in virtù di lei: in che modo quella è per sé? Infatti, ciò che esiste in virtù di una cosa, sembra esistere o per una causa efficiente, o per una materia o per qualche altro mezzo, come ad esempio uno strumento.

Ma tutto ciò che esiste in uno di questi tre modi esiste in virtù di altro, ed è posteriore e inferiore a ciò per cui ha l’essere. Ora la somma natura in nessun modo è per altro, né è posteriore o inferiore a se stessa o ad alcunché. Perciò la somma natura non poté esser fatta né da sé né da altro, né fu materia a se stessa, né altra cosa le fu materia né in qualche modo fu a se stessa mezzo, o altro le fu mezzo per essere quel che prima non era. E allora? Sembra infatti che ciò che non è venuto all’essere né in virtù di una causa efficiente né da una materia né per qualche altro mezzo, non sia nulla 0, se è qualche cosa, sia dal nulla o in virtù di nulla. Ora, sebbene da quello che. ho potuto scoprire della somma sostanza al lume della ragione, non creda che di lei possa dirsi questo, tuttavia non trascurerò di darne una dimostrazione.

Poiché infatti questa mia meditazione mi ha condotto d’un tratto a qualcosa di grande e che mi riempie di gioia, non voglio trascurare nessuna obiezione che possa presentarmisi, per quanto semplice e apparentemente sciocca, affinché, non lasciando nulla di dubbio in ciò che precede, io stesso possa proseguire più sicuro, e, se vorrò convincere altri della verità di ciò che medito, anche l’intelletto più tardo possa facilmente accedere alle mie conclusioni, vedendo rimosso ogni più piccolo ostacolo.

Che dunque quella natura, senza la quale nulla esiste, sia nulla, è tanto falso quanto sarebbe assurdo dire che tutto ciò che esiste non esiste. E neppure esiste in virtù di (per) nulla, poiché non si può concepire in nessun modo che ciò che è reale sia in virtù di nulla. Ma se in qualche modo fosse dal nulla, sarebbe dal nulla o per sua virtù *, o per altro?, o per nulla®. Ora è manifesto che in nessun modo una cosa può essere in virtù di nulla”. Se dunque in qualche modo derivasse dal nulla, ne deriverebbe o per sé o per altro. Ma nulla può derivare dai nulla per sé 8, poiché se una cosa deriva dal nulla in virtù di qualche cosa, ciò in virtù di cui ne deriva deve essere anteriore a lei. Poiché dunque questa essenza non è anteriore a se stessa, non può derivare -dal nulla per virtù sua.

Se poi si dicesse che è sorta dal nulla in virtù di un’altra natura, allora non sarebbe più il sommo ente, ma sarebbe inferiore a un altro; né avrebbe l'essere da sé, ma da un altro. Inoltre, se essa derivasse dal nulla in virtù di qualche cosa, questo qualche cosa sarebbe un gran bene, poiché sarebbe la causa di un bene tanto grande. Ora non si può concepirè nessun bene prima di quello in virtù del quale ogni cosa è buona, e abbiamo già detto che questo bene in virtù di cui ogni cosa è buona è la somma natura della quale parliamo. Perciò nessuna cosa in virtù ‘della quale essa potesse uscire dal nulla può esserle neppure logicamente anteriore. Infine, se questa somma natura è in virtù di nulla o dal nulla, bisogna concluderne o che essa non è per sé e da sé, o che è nulla essa stessa, ed è superfluo dimostrare la falsità di queste due conclusioni.

Dunque, sebbene la somma sostanza non esista in virtù di una causa efficiente, né derivi da una materia, né sia stata aiutata da altre cause per venire all'essere, tuttavia non è dal nulla o in virtù di nulla, poiché esiste per sé e da sé. E allora come. si deve concepire che esista per sé e da sé, se non si è fatta da sé, né è stata a se stessa materia, né si è in qualunque modo aiutata a essere ciò che prima non era? Forse la cosa va intesa alla stessa maniera in cui si dice che la luce splende per se stessa e da sé.

Come infatti stanno fra loro la luce, lo splendore, e ciò che splende, così starino fra loro l’essenza, essere e l’ente, ossia ciò che esiste o sussiste. Dunque la somma essenza, il sommo essere e il sommo ente, ossia ciò che sommamente esiste o sussiste, stanno fra loro in modo analogo alla luce, allo splendore e a ciò che splende.

VII. COME TUTTE LE COSE ESISTANO IN VIRTÙ DELLA SOMMA ESSENZA È DERIVINO DA LEI.

Resta ora da esaminare come l’insieme delle cose che esistono in virtù di altro esista per virtù della somma sostanza: se ciò sia perché essa ha fatto tutte le cose, o perché è la materia di tutte le cose. Non è infatti necessario domandarsi se le cose derivino da lei come da causa adiuvante un altro efficiente o da materia, poiché sarebbe contrario a ciò che abbiamo concluso sopra il parlare di lei come causa secondaria e non principale. Prima di tutto bisogna domandarsi se la totalità delle cose che derivano da altro derivi da una materia. Non metto in dubbio che l'insieme del mondo con le sue parti, formato così come lo vediamo, consti di terra, acqua, aria e fuoco, elementi che possono in qualche modo esser concepiti senza queste forme che vediamo nelle cose formate, sicché la loro informe o confusa natura sembra essere la materia di tutti i corpi distinti dalle loro rispettive forme; non dubito di questo, ma mi domando donde derivi questa stessa materia del mondo.

Infatti, se vi è una materia anche di questa materia, a maggior ragione quella potrà dirsi materia del mondo. Se dunque l’insieme delle cose, visibili e invisibili, deriva da una materia, non sono possibili se non tre ipotesi su tale materia: o che essa sia la somma natura, o sia l'universo stesso, o sia una terza essenza, che per verità non esiste, poiché non si può pensar nulla all'infuori del sommo ente, che è per se stesso, e della totalità delle cose che esistono non per sé, ma in virtù di quello. E ciò che non esiste non può essere materia di nulla. L’universo, che non è per sé, non può poi derivare dalla sua propria natura, poiché in tal caso sarebbe in certo modo per sé e per altro da ciò per cui esistono tutte le cose, e non sarebbe unico ciò per cui esistono tutte le cose; il che è falso. Inoltre, tutto ciò che deriva da una materia, deriva da altro e gli è posteriore; poiché dunque una cosa non è altra da se stessa O posteriore a se stessa, ne segue che nessuna cosa può derivare da sé come da materia. Ma se dalla materia della somma natura potesse derivare qualcosa di inferiore a lei, il sommo bene potrebbe mutarsi e corrompersi, e dir questo sarebbe una empietà. Perciò, siccome tutto ciò che è altro dalla somma natura è inferiore a essa, è impossibile che qualcos’altro derivi da lei in questo modo.

Inoltre è certo che non è affatto buono ciò per cui si muta o si corrompe il sommo bene; ora, se una natura inferiore derivasse dalla materia del sommo bene, il sommo bene ne sarebbe mutato e corrotto, poiché nulla può derivare se non dalla somma essenza. Perciò la somma essenza, che è il sommo bene, non sarebbe affatto buona, il che è impossibile. Dunque nessuna natura inferiore deriva dalla somma natura come da materia.

Poiché dunque l’essere delle cose che derivano da altro non deriva come da materia né dalla somma essenza, né da sé né da altro, è evidente che non deriva da nessuna materia. E poiché tutto ciò che esiste, esiste in virtù della somma essenza e non può esistere per essa che in uno di questi due modi: o perché la somma essenza lo ha fatto o perché ne è materia, ne segue necessariamente che nulla esiste fuori della somma essenza che non sia stato fatto da lei. E poiché non esiste se non la somma essenza e ciò che è fatto da lei, ne segue che la somma essenza non poté giovarsi di nessuno strumento o aiuto fuori di sé. Ma tutto ciò che è fatto da lei, deve essere fatto o da una materia o dal nulla. Ora, poiché è manifesto che l’essere di tutte le cose diverse dalla somma essenza procede da questa, e non deriva da alcuna materia, è chiaro che la somma essenza sola e per se stessa produsse dal nulla questa gran mole di cose, questa numerosa moltitudine, questo insieme così bellamente formato, così ordinatamente variato, così armonicamente diverso.

VIII. COME VADA INTESA L'AFFERMAZIONE CHE FECE OGNI COSA DAL NULLA.

Ma a proposito del nulla si presenta una difficoltà. Tutto ciò, infatti, da cui deriva una cosa — qualunque essa sia — è causa di ciò che da esso deriva, e una causa deve contribuire in qualche modo all’essere dell’effetto. Verità di cui tutti son così persuasi dall’esperienza che a nessuno è possibile toglierla di mente discutendo, né fargliela negare ingannandolo. Se dunque qualcosa è stato fatto dal nulla, il nulla fu causa di ciò che da esso è stato fatto 4, Ora, in che modo ciò che non aveva alcun essere contribuì a far venire all’essere qualcosa ? E se dal nulla non viene alcun sostegno ad una cosa, come si può dire che una cosa è fatta dal nulla ? Inoltre, la parola nulla 0 significa qualche cosa o non significa qualche cosa. Ma se il nulla è qualche cosa, tutto ciò che è fatto dal nulla è fatto da qualche cosa.

Se poi il nulla non è qualche cosa, poiché non si può concepire che qualche cosa derivi! da ciò che non è affatto, nulla può derivare da nulla, come dicono tutti: de nihilo nihil.

E da ciò sembra seguire che tutto ciò che sorge, sorge da qualche cosa. Poiché o deriva da qualche cosa, o dal nulla. O che dunque il nulla sia qualche cosa, o che non sia qualche cosa, sembra seguirne che tutto ciò che è fatto sia fatto da qualche cosa. Ma se ciò è vero, si nega tutto ciò che abbiamo detto sopra, e perciò, siccome ciò che era nulla è diventato qualche cosa, ciò che sommamente era, sarà nulla.

Infatti, dall’affermazione di una sostanza sommamente esistente, avevo inferito, ragionando, che tutte le altre cose erano state fatte da lei senza che vi fosse nulla donde fossero tratte. Quindi, se ciò da cui sono state tratte, che io credevo fosse nulla, è invece qualche cosa, diventa nulla ciò che credevo di aver scoperto della somma essenza. Come si deve dunque intendere dal nulla ? Ho infatti stabilito di non trascurare in questa meditazione nulla di ciò che possa essere obiettato, anche se sciocco. Penso dunque che in tre modi si possa intendere, per risolvere la presente obiezione, che una sostanza sia stata fatta dal nulla. In un primo modo, quando si dice che una cosa è fatta dal nulla, si intende che essa non è fatta, come avviene quando, a chi ci domanda di che cosa parli uno che tace, rispondiamo: « Di nulla » per dire: « Non parla ». In questo modo si può giustamente rispondere a chi ci domandi donde è stata fatta la somma essenza o donde sia stato fatto ciò che non è mai esistito: « Da nulla », cioè: non è stato fatto per niente. Ma questo significato non si può attribuire a nessuna delle cose che sono state fatte. Un secondo significato può essere enunciato, ma non può essere vero: cioè quando si dica che una cosa è fatta dal nulla in modo tale che sia derivata dal nulla stesso, ossia da ciò che non è affatto, quasi il nulla fosse una realtà esistente dalla quale può sorgere qualche cosa. E poiché una tale affermazione è sempre falsa, tutte le volte che la si pone ne seguono inconvenienti impossibili.

Il terzo modo in cui si interpreta la frase che una cosa è fatta dal nulla è quello di intendere che la cosa sia fatta, ma che non esista un ente dal quale sia tratta. Un significato simile è quello nel quale diciamo che un uomo contristato senza motivo si rattrista di nulla. Se si intende in questo terzo significato ciò che sopra abbiamo concluso, cioè che tutte le cose che esistono oltre la somma essenza, essa le ha fatte dal nulla, cioè non da una materia preesistente — come questa conclusione segue coerentemente da ciò che precede, così nessuna incoerenza segue da questa conclusione. Ma si può pure dire senza alcuna incongruenza e ripugnanza che le cose fatte dalla sostanza creatrice sono fatte dal nulla, come si dice che uno da povero è diventato ricco e da malato è diventato sano. Il che vuol dire: quello che prima era povero, ora è ricco, e prima non lo era; e colui che aveva la malattia ora ha la salute, e prima non l’aveva. In questo modo si può intendere senza contraddizione che l’essenza creatrice abbia creato tutto dal nulla, o che tutte le cose siano state create dal nulla per virtù di lei; cioè: le cose che prima erano nulla, ora sono qualche cosa. Con le stesse parole, infatti, con le quali si dice: « Esistono perché le ha fatte », oppure: «perché sono state fatte », si intende che, avendole fatte, ha fatto qualcosa di reale, e poiché queste sono state fatte, sono diventate realtà. Così, vedendo uno che, da condizioni molto modeste, è stato innalzato da un altro a grande ricchezza e a grandi onori diciamo: « Ecco, lo ha fatto dal nulla »; oppure: «È stato tirato su dal nulla». Il che vuol dire: costui, che era reputato come un nulla, ora, per opera di colui, è stimato qualcuno.

IX. LE COSE FATTE DAL NULLA, PRIMA DI ESSERE CREATE, NON ERANO NULLA QUANTO ALLA LORO CAUSA EFFICIENTE.

Ma mi sembra di vedere qualcosa che mi costringe ad esaminare accuratamente in che senso le cose create, prima di esser create, possano dirsi nulla. Infatti non è assolutamente possibile che una cosa sia fatta razionalmente da qualcuno se nella ragione di colui che la fa non preceda quasi un modello, o meglio forma, o similitudine o regola della cosa da farsi. È chiaro dunque che, prima della creazione, vi era nella ragione della somma natura una idea di che cosa o di che tipo o in che modo dovessero essere le cose create. Perciò, sebbene le cose create, prima di esser create, non fossero nulla, nel senso che non erano ciò che sono ora, né vi era una materia dalla quale fossero tratte, tuttavia esse non erano nulla per ciò che si riferisce alla ragione in virtù della quale e secondo la quale furono prodotte da chi le fece.

X. L'IDEA DELLE COSE È UNA ESPRESSIONE DELLE COSE STESSE, ANALOGA A QUELLA CON LA QUALE L’ARTEFICE DICE PRIMA A SE STESSO CHE COSA INTENDA FARE.

Ma che altro è quella forma delle cose che precedeva le creature nella ragione di chi le fece, se non un dire le cose nella ragione stessa, come quando un artefice, che sta per fare un'opera dell’arte sua, la dice prima in sé con un concetto della mente? E quando parlo di un dire della mente o della ragione, intendo non il pensare il suono significante, ma il vedere presenti alla mente, con lo sguardo del pensiero !, le cose stesse future o esistenti. L’uso ripetuto, infatti, ci fa distinguere tre modi di dire una cosa. Possiamo dirla con segni sensibili, ossia tali che possano essere colti con l’uso dei sensi corporei; o pensando dentro di noi non sensibilmente quei segni che, espressi esteriormente, sarebbero sensibili; oppure dicendo interiormente nella nostra mente le cose stesse con l'immaginazione o con l’intelletto (a seconda della loro diversa natura), senza usare questi segni né sensibilmente né insensibilmente. In diverso modo infatti dico « uomo » quando lo significo con questo nome womo; quando penso tacendo questo nome; e quando la mente vede l’uomo stesso 0 in una immagine o con la ragione. Lo vede in una immagine quando si rappresenta la sua figura sensibile, lo vede con la ragione quando pensa la sua essenza universale, che è « animale ragionevole mortale ».

Ora, ognuno di questi tre diversi modi di dire una cosa consta di parole di diverso genere.

Ma le parole che si usano in quel modo di dire le cose che ho indicato come terzo e ultimo, quando si riferiscono a cose non ignote, sono naturali e sono le medesime presso tutti i popoli. E poiché tutte le altre parole sono state inventate per esprimere queste, quando ci sono queste non è necessaria nessun'altra parola per conoscere la cosa, e quando queste non ci possono essere, nessun'altra parola serve a far conoscere la cosa. Si può anche dire che sono tanto più vere quanto più sono simili alle cose alle quali corrispondono e quanto più precisamente le indicano. Infatti, eccettuate le cose che adoperiamo come nomi per significare se stesse, come per esempio la vocale: eccetto queste, dico, nessun’altra parola è così simile alla cosa che esprime, e nessuna la esprime così bene, come quella similitudine che è espressa dalla forza della mente che la pensa. Questa dunque deve esser detta parola nel senso più proprio e principale.

Dunque se nessun altro dire si avvicina tanto alla cosa quanto quello fatto di tali parole, né ve ne può essere altro, nella ragione di chicchessia, tanto simile alla cosa, sia essa futura sia già esistente, sembra ragionevole ammettere che la somma sostanza dicesse così le cose, prima che esse fossero, per farle essere, e le dica così, quando già esistono, per conoscerle.

XI. NELLA SIMILITUDINE CON L’ARTEFICE VI È TUTTAVIA MOLTA DISSOMIGLIANZA.

Ma sebbene abbiamo concluso che la somma sostanza abbia in certo senso detto in sé tutte le cose prima di crearle secondo questo suo intimo dire e in virtù di questo come l’artefice concepisce prima nella sua mente ciò che poi eseguisce nell’opera secondo tale concetto, vi è tuttavia una grande dissomiglianza in questa similitudine. La somma sostanza infatti non prende nulla fuori di sé, né per imprimere in sé la forma delle cose che crea, né per eseguirle così come sono. L’artefice invece non può in alcun modo concepire nella mente, immaginandola, una realtà corporea, se già non l’ha appresa dalle cose, o tutta insieme o una parte alla volta 2%; né può eseguire l’opera concepita se gli manca la materia o i mezzi necessari ad attuarla. Sebbene infatti l’uomo possa foggiarsi, pensandolo o dipingendolo, un animale mai esistito, non può farlo tuttavia se non mettendo insieme parti raccolte nella sua memoria da altre cose conosciute.

Perciò la differenza fra l'intimo dire le opere da compiere nella sostanza creatrice e nell’artefice è questa: che il primo non è desunto né aiutato da altro, ma è la prima e sola causa, sufficiente all’artefice per eseguire l’opera sua; invece il dire dell’artefice umano non è né la prima né la sola causa, né è sufficiente neppure a cominciare l’opera. Quindi le cose create dalla somma sostanza non hanno nulla che non derivi da essa; le cose prodotte, invece, dall’artefice umano non esisterebbero affatto se non vi fosse in loro qualche cosa che non dipende dall’artefice.

XII. QUESTO DIRE DELLA SOMMA ESSENZA È IDENTICO ALLA STESSA SOMMA ESSENZA

Ma poiché la ragione ci insegna come cosa certa che tutto ciò che la somma sostanza fece, lo fece da sé, e che tutto ciò che fece, lo fece col suo intimo dire — sia che abbia fatto le cose esprimendole ognuna con una diversa parola, sia che piuttosto abbia detto ogni cosa con un’unica parola — cosa può esservi di più evidente che il dire della somma essenza è identico con la somma essenza ? Credo dunque che non si debba trascurare di considerare la natura di questa parola; ma prima che si possa trattarne diligentemente, penso si debbano studiare attentamente alcuni attributi della somma sostanza.

XII. TUTTE LE COSE, COME FURONO CREATE DALLA SOMMA ESSENZA, COSÌ SUSSISTONO PER VIRTÙ DI LEI.

Si è concluso, dunque, che è creato dalla somma natura tutto ciò che non è identico a lei.

Ora non può essere dubbio, se non a una mente irragionevole, che tutte le cose create hanno forza di perseverare nell’essere, finché durano, da quello stesso che, dal nulla, le ha fatte essere ciò che sono.

Con un ragionamento in tutto simile, infatti, a quello col quale abbiamo concluso che tutto ciò che esiste, esiste in virtù di un ente che, solo, è per se stesso, mentre tutto il resto è in virtù di altro — con un simile ragionamento, dico, si può dimostrare che tutto ciò che sussiste , sussiste in virtù di un ente che, solo, sussiste per sé, mentre tutto il resto sussiste in virtù di altro.

E ciò implica che tutto ciò che è stato fatto sussiste in virtù di altro, e che ciò da cui le cose sono state fatte sussiste per sé: sicché, come nulla è stato fatto se non in virtù della presente essenza creatrice, così nulla sussiste se non in virtù della sua presenza conservatrice.

XIV. LA SOMMA ESSENZA È IN OGNI COSA E PER OGNI COSA, E TUTTO CIÒ CHE È, È DA LEI, PER LEI ED IN LEI.

Ora, se è così: anzi, poiché necessariamente è così, né segue che, dove non è la somma essenza, nulla esiste.

Essa è quindi — dovunque e per tutto e in tutto.

Ma, poiché sarebbe assurdo che, come nessuna creatura può uscire dall’immensità di chi la crea e ia fa sussistere, così chi crea e sostiene tutto non potesse superare la totalità delle cose create, è chiaro che la somma essenza è quella che porta e supera tutte le altre cose, le involge, le penetra.

E se ora connettiamo questa conclusione con quella dei capitoli precedenti, vedremo che la stessa somma essenza che è in ogni cosa e per ogni cosa, è anche quella dalla quale e in virtù della quale e nella quale sono tutte le cose.

XV. QUALI SONO GLI ATTRIBUTI SOSTANZIALI DEL SOMMO ENTE.

Ora desidero vivamente indagare quanto più seriamente potrò quali attributi, fra tutti quelli che si possono predicare di un soggetto, convengano essenzialmente a questa così mirabile natura. Sebbene infatti mi stupisca che si possa trovare qualcosa che possa dirsi degnamente della sostanza creatrice dell’universo fra i nomi o i verbi che si adattano alle cose fatte dal nulla, tuttavia vale la pena di esplorare a che cosa ci conduca questa indagine. Quanto agli attributi relativi, è chiaro che nessuno di essi è essenziale al soggetto di cui si dice; quindi se un attributo si predica relativamente della somma natura, esso non può significarne l’essenza.

Perciò il suo stesso essere superiore a tutto, o maggiore di tutte le cose da lei create, o qualunque altro attributo si possa predicare di lei in relazione ad altro, evidentemente non designa la sua naturale essenza ?8, Se infatti non esistesse nessuna delle cose alle quali essa si dice superiore e maggiore, la somma sostanza non potrebbe più esser concepita come superiore o maggiore; e tuttavia non per questo essa sarebbe meno buona né sarebbe diminuita la grandezza della sua essenza. E ciò risulta manifestamente dalla considerazione che la somma sostanza è per se stessa tutto ciò che è di buono o di grande. Se dunque si può pensare la somma natura senza concepirla come superiore a tutto e tuttavia, così intesa”, essa non è né maggiore né minore di quando la si pensa come superiore a tutto, vuol dire che quel «superiore a tutto » non significa intrinsecamente quell’essenza che è assolutamente più grande e migliore di tutto ciò che non è lei.

E quello che la ragione ci ha insegnato a proposito dell’attributo superiore si verifica similmente di ogni attributo relativo. Lasciando da parte dunque gli attributi relativi, poiché nessuno di essi indica l’essenza di una cosa, passiamo a esaminare gli altri. Ora, se li consideriamo uno a uno diligentemente, vediamo che ogni attributo non relativo o è tale da essere assolutamente migliore della sua negazione, o non è tale. Per « attributo » e «sua negazione » intendo per esempio: vero - non-vero, corpo - non-corpo, e così via. Attributo assolutamente migliore della sua negazione è per esempio sapiente rispetto a non-sapiente; cioè meglio è il sapiente del non-sapiente. Sebbene infatti un giusto non-sapiente sia migliore di non-giusto sapiente, tuttavia, assolutamente, il non-sapiente non è migliore del sapiente; infatti, il non-sapiente, in quanto tale, è inferiore al sapiente, poiché un non-sapiente sarebbe migliore se fosse sapiente. Analogamente, il vero è migliore della sua negazione, cioè del non-vero; il giusto migliore del non-giusto e il vivente migliore del non-vivente.

In certe cose, invece, è migliore una negazione dell’attributo positivo, per esempio il non-oro dell’oro; infatti, meglio è per l’uomo esser non-oro che oro, sebbene per altre cose sarebbe meglio esser oro che non-oro, per esempio per il piombo. Mentre infatti l'uno e l’altro, ossia l’uomo e il piombo, sono non-oro, l’uomo è tanto migliore dell’oro quanto sarebbe di natura inferiore se fosse oro; e il piombo è tanto più vile dell’oro, quanto sarebbe più prezioso se fosse oro. Dal fatto poi che la somma natura può esser pensata senza esser pensata come superiore a tutto, in modo tale che, quando è pensata come superiore a tutto non è intesa come migliore di quando non è intesa come tale, né viceversa, segue che molti attributi relativi non sono compresi in questa divisione . Non mi pongo ora il problema se la divisione si applichi ad alcuni di essi, poiché alla nostra ricerca basta ciò che abbiamo già messo in luce al loro proposito: e cioè che nessun attributo relativo designa intrinsecamente la sostanza della somma natura.

Poiché dunque qualunque attributo o è migliore della sua negazione o, in certi casi, la sua negazione è migliore di esso, siccome sarebbe empio pensare che la sostanza della somma natura sia qualcosa la cui negazione sarebbe migliore, è necessario che essa abbia tutti gli attributi che, in qualunque caso, sono migliori della loro negazione. Infatti essa è la sola di cui nulla è migliore, ed è migliore di tutto ciò che non è lei. Non è dunque corpo né cosa sensibile, poiché l’incorporeo e il non-sensibile è migliore dei corpi. La mente ragionevole, infatti, che i sensi non possono percepire né nella sua essenza, né nella sua qualità, né nella sua grandezza, è tanto superiore ai corpi quanto sarebbe inferiore se fosse una delle cose che soggiacciono ai sensi corporei. Nessuna delle realtà, infatti, a cui è superiore qualcosa di diverso da esse può essere attribuita alla somma essenza, mentre deve esserle attribuita, come insegna la ragione, ogni realtà alla quale è inferiore tutto ciò che è diverso da essa.

Così, è necessario che essa sia vivente, sapiente, potente e onnipotente, vera, giusta, beata, eterna, e tutto ciò che, assolutamente, è migliore della sua negazione.

Perché dunque si dovrebbe ancora indagare cosa sia quella somma natura, se è manifesto tutto ciò che essa è o non è?

XVI. PER IL SOMMO ENTE È IDENTICO ESSER GIUSTO ED ESSERE LA GIUSTIZIA, E COSÌ DEGLI ALTRI ATTRIBUTI; E NESSUNO DEGLI ATTRIBUTI DESIGNA SUE QUALITÀ E QUANTITÀ, MA SEMPRE LA SUA ESSENZA.

Ma, forse, quando si dice che la somma sostanza è giusta, o grande, o qualcosa di simile, non si esprime che cosa essa sia, ma si dice piuttosto quale è, e quanto grande. Giusta e grande invero è detta una cosa per la sua qualità e quantità: infatti tutto ciò che è giusto, è giusto per la giustizia, e così per gli altri attributi. Sembra dunque che la sostanza sommamente buona si dica giusta perché partecipa di una qualità: della giustizia. E se le cose stanno così, essa è giusta per altro, non per sé. Ma questa conclusione è contraria alla verità che abbiamo già messa in luce, e cioè che essa è ciò che è — buona, grande sussistente — assolutamente per sé e non per altro. Se dunque non è giusta se non per la giustizia, né può esser giusta se non per sé, cosa può esser più evidente e più necessario di questa conclusione: che la somma natura è la stessa giustizia? E quando si dice che è giusta per la giustizia è come se si dicesse che è giusta è per sé, e quando si dice che è giusta per sé si vuol dire che è giusta per la giustizia. Perciò, se uno chiede che cosa sia questa somma natura di cui si parla, nessuna risposta è più vera di questa: è la giustizia.

Vediamo dunque come si debba intendere l’affermazione che quella natura, che è la stessa giustizia, è giusta. Poiché infatti l’uomo non può essere la giustizia, ma può avere la giustizia, per uomo giusto non si intende uno che è la giustizia, ma uno che ha la giustizia. Poiché invece non si può dire propriamente che la somma natura ha la giustizia, ma è la giustizia, quando si dice che essa è giusta, si intende propriamente che è la giustizia e non che ha la giustizia. E perciò, siccome quando si dice che è la giustizia, non si esprime una sua qualità, ma la sua essenza, ne segue che quando si dice che è giusta, non se ne esprime una qualità ma l'essenza. Quindi, poiché di quella suprema essenza è lo stesso dire: «è giusta » ed «è la giustizia esistente » — e quando si dice che è la giustizia esistente si intende: «è la giustizia) — non c'è nessuna differenza in lei fra l’esser giusta e l’esser giustizia. E perciò quando ci si chiede che cosa sia la somma sostanza, si risponde tanto esattamente dicendo: «è giusta», quanto dicendo: «è la giustizia».

Ora, ciò che si è visto e ammesso nell’esempio della giustizia si deve ammettere, per necessità di ragione, di tutti gli attributi che si predicano della somma natura. Tutto ciò che si dice di lei mostra non quale o quanto grande essa sia, ma che cosa sia.

Ma è chiaro che la somma natura è sommamente tutto ciò che è. È dunque somma essenza, somma vita, somma ragione, somma salute, somma giustizia, somma sapienza, somma verità, somma bontà, somma grandezza, somma bellezza, somma immortalità, somma incorruttibilità, somma immutabilità, somma beatitudine, somma eternità, sommo potere, somma unità; che è come dire: è sommamente ente, sommamente vivente, e così degli altri attributi.

XVII. LA SOMMA SOSTANZA È COSÌ SEMPLICE CHE TUTTO CIÒ CHE SI PUÒ DIRE DELLA SUA ESSENZA È UNO E IDENTICO IN LEI, E TUTTO CIÒ CHE DI LEI SI PREDICA SOSTANZIALMENTE ESPRIME LA SUA ESSENZA.

E allora ? Se quella somma natura comprende in sé tanti beni, è forse composta di molteplici beni, o invece non si tratta di beni molteplici, ma di un unico bene, significato da tanti nomi? Ogni composto infatti ha bisogno dei suoi componenti per sussistere, e deve loro il suo essere ?”, poiché in virtù di essi è quel che è, mentre quelli non sono in virtù del composto; perciò Il composto non può essere l’ente sommo. Se dunque quella natura è composta di beni molteplici, deve avere tutti i caratteri che ineriscono agli enti composti. Ma le verità necessarie che ci si manifestarono sopra distruggono e annullano questa nefanda falsità. Poiché dunque quella natura non è affatto composta, e tuttavia è assolutamente tutti quei beni, è necessario che tutti questi non siano molteplici, ma siano una cosa sola. Ognuno di essi, dunque, è identico a tutti, siano presi tutti insieme o singolarmente. Per esempio, quando si dice che la somma natura è giustizia o che è essere ?8, ciò significa lo stesso di quel che significano gli altri attributi, siano presi singolarmente o insieme. Come dunque è una cosa sola tutto ciò che si predica essenzialmente della somma sostanza, così essa è tutto ciò che costituisce la sua essenza nell’identico modo e sotto una identica considerazione.

Sebbene infatti un uomo si dica corpo, razionale, uomo, egli non è queste fre cose nell’identico modo e sotto una identica considerazione: è infatti corpo secondo un certo aspetto, razionale secondo un altro, e ognuno di questi aspetti, per sé preso, non costituisce la totalità dell’uomo.

Quella somma essenza, invece, non è tale sotto un aspetto e non-tale se considerata secondo un altro modo o sotto un altro aspetto, poiché tutto ciò che essa è essenzialmente la costituisce nella sua totalità.

Nulla dunque di ciò che si predica con verità della sua essenza si può intendere come una sua qualità e quantità, ma deve intendersi come costitutivo di ciò che essa è. Tutto ciò, infatti, che è quale o quanto è anche altro in ciò che lo costituisce 9, e perciò non è semplice, ma composto.

XVIII. LA SOMMA ESSENZA NON HA PRINCIPIO NÉ FINE

Da quando è dunque esistita questa semplicissima natura, creatrice e forza di tutte le cose, o fino a quando esisterà ? O invece non esiste né da un certo momento né fino a un determinato momento, ma è senza principio e senza fine ? Se infatti avesse principio, lo avrebbe o da sé e per sé o da altro e per altro o da nulla e per nulla. Ma è manifesto da ciò che abbiamo visto prima che essa non può essere da altro o per altro, né dal nulla o per nulla. Non ha dunque avuto inizio in nessun modo per altro o da altro, né per nulla e dal nulla. Da sé, poi, o per sé non può avere inizio sebbene sia da sé e per sé. È infatti da sé e per sé in modo tale che non si distinguono l’essenza che è da sé e per sé e l’essenza per la quale e dalla quale è. Ora tutto ciò che comincia a essere da qualche cosa o per qualche cosa non è assolutamente identico con ciò da cui o per cui comincia a essere. Dunque la somma natura non ha incominciato a esistere per sé o da sé, e poiché non ha principio né per sé e da sé, né per altro o da altro, né per nulla o da nulla, in nessun modo ha principio.

Né avrà fine. Infatti, se avesse fine non sarebbe sommamente immortale e sommamente incorruttibile. E invece è risultato che è sommamente immortale e incorruttibile. Dunque non avrà fine. Inoltre, se deve finire, finirà o volente o nolente. Ma certo non è schietto bene ciò che volontariamente fa perire il sommo bene. Ora essa è il vero e schietto bene, e perciò non verrà meno spontaneamente lei che certamente è il sommo bene. Se poi venisse meno contro la sua volontà, non sarebbe sommamente potente né onnipotente. Ma la necessità razionale asserì che essa è sommamente potente e onnipotente. Dunque non verrà meno contro la sua volontà. E perciò, se la somma natura non avrà fine né volente né nolente, non avrà fine in nessun modo.

Ancora: se quella somma natura avesse principio o fine, non sarebbe la vera eternità, come abbiamo invece trovato che è, con argomenti inespugnabili. E poi, provi uno a pensare quando cominciò a esser vero o quando non fu vero che qualcosa era futuro — o quando smetterà di essere vero e non sarà più vero che qualcosa è stato. E, se non riusciamo a pensarlo, ed entrambe queste proposizioni non possono essere vere senza che vi sia la verità, non è neppur possibile pensare che la verità abbia un principio o una fine. Infine, se la verità avesse avuto principio o dovesse aver fine, prima che essa cominciasse sarebbe pur stato vero che non vi era verità; e dopo che essa fosse finita sarebbe pur vero che allora non vi sarà verità. Ma non può esserci un vero senza la verità. Vi era dunque la verità, prima che la verità fosse, e vi sarà la verità dopo che la verità sarà finita, il che è contraddittorio. O si dica, dunque, che la verità ha un principio e una fine, o si pensi che la verità non ha né principio né fine, in nessun modo si può chiudere la verità con un principio o una fine. Ora, ciò che vale della verità vale della somma natura, che è la verità.

XIX. IN CHE MODO NULLA FU PRIMA DI LEI O SARÀ DOPO DI LEI.

Ma, ecco, mi si ripresenta di nuovo il nulla, e asserisce che sono nulla tutte le affermazioni che la ragione ha esposto finora, mossa dall’attestazione concorde della verità e della necessità. Se infatti le conclusioni che sono state sopra elaborate sono state assodate con la forza della verità necessaria, non vi fu alcuna realtà prima della somma essenza né ve ne sarà alcuna dopo di lei. E perciò non vi fu nulla prima di lei e non vi sarà nulla dopo di lei, poiché o vi fu qualcosa o non vi fu nulla che la precedette o che la segua. Ora, chi dice che nulla vi fu prima di lei e nulla sarà dopo di lei, sembra enunciare che ci fu un tempo prima di lei quando vi era il nulla, e vi sarà un tempo dopo di lei in cui sarà il nulla. Quando dunque vi era il nulla, essa non era; e quando vi sarà il nulla essa non sarà. Come si può dunque dire che non cominciò dal nulla e che non perverrà al nulla, se essa non era ancora quando vi era già il nulla, e non sarà più quando vi sarà di nuovo il nulla ? Che cosa ha dunque costruito quella gran mole di argomenti se il nulla demolisce così facilmente le loro costruzioni? Se infatti si stabilisce che il sommo essere succeda al nulla che lo precede, e ceda il posto al nulla che lo segue, tutto ciò che fu sopra stabilito dalla verità necessaria è demolito dal vuoto nulla. O invece bisogna respingere il nulla, perché non siano da esso annientate tante costruzioni della ragione necessaria e sia perduto per nulla quel sommo bene cercato e trovato con la lucerna della verità ?

Si asserisca dunque, se è possibile, che il nulla non fu prima della somma essenza, e che non sarà dopo di lei, piuttosto che, mentre si fa posto al nulla prima o dopo di lei, sia ridotto al nulla quell’essere che per sé condusse all’essere ciò che era nulla. L’espressione « nulla fu prima della somma essenza » ha infatti due significati: uno è il significato esprimibile a parole: « prima che fosse la somma essenza vi fu un tempo in cui era il nulla »; l’altro è il significato intelligibile : « prima della somma essenza non vi fu alcuna realtà ».

Come, se dicessi: « Nulla mi ha insegnato a volare », potrei spiegare questa frase o così: il nulla, che significa «non ente», mi ha insegnato a volare — e questo sarebbe falso; oppure così: non c’è alcuna cosa che mi abbia insegnato a volare, e questo è vero. Ora il primo significato è quello che dà luogo alle contraddizioni sopra indicate, e con ogni ragione va respinto come falso; il secondo è quello perfettamente coerente con le argomentazioni esposte sopra, e la sua verità è dimostrata in modo stringente da tutta la loro concatenazione. Perciò, quando si disse che nulla fu prima della somma essenza, la frase deve essere intesa nel secondo significato, e non deve essere spiegata in modo da dare a intendere che vi fu un tempo in cui essa non era, ed era il nulla, ma in modo da far capire che non vi fu alcuna cosa prima di lei. Ha pure due significati l’affermazione che nulla sarà dopo di lei. Se dunque si analizza diligentemente l’interpretazione che abbiamo data del nulla, si conclude con assoluta verità che la somma essenza non è stata preceduta o sarà seguita né da qualche cosa né dal nulla, e si conclude che nulla fu prima di lei e nulla la seguirà; e tuttavia l’inanità del nulla non scuote la solidità di ciò che è stato stabilito.

XX. LA SOMMA ESSENZA È IN OGNI LUOGO E TEMPO.

Sebbene sia stato sopra concluso che questa natura creatrice è dovunque e in ogni cosa e dappertutto, e, dal fatto che non è cominciata né finirà, segua che fu sempre, è e sarà: tuttavia sento un certo mormorìo di contraddizione che mi costringe a indagare con più diligenza dove e quando essa sia. Ora, la somma essenza o è dovunque e sempre, o è solo in un certo luogo e in un certo tempo, oppure non è in nessun luogo e in nessun tempo. Ossia: o è in ogni luogo e tempo, o in un luogo e in un tempo determinati, o in nessuno.

Ma cosa è più assurdo dell’affermazione che ciò che esiste nel modo più vero e più alto non sia in nessun luogo e in nessun tempo ? È dunque falso che essa non sia in nessun luogo e in nessun tempo. E poi, poiché non vi è bene né realtà alcuna senza di lei, se essa non fosse in nessun luogo e in nessun tempo, non vi sarebbe alcun bene in nessun luogo e in nessun tempo, né vi sarebbe, in alcun luogo e in alcun tempo, realtà. È dunque falsa l’ipotesi che essa non sia in nessun luogo e in nessun tempo. O è dunque in un determinato luogo e tempo o dovunque e sempre.

Ma se fosse in un luogo e in un tempo determinati, potrebbe esservi realtà solo ivi ed allora, ossia dove e quando essa fosse: dove poi e quando essa non fosse, non potrebbe esservi nessun essere #4, poiché senza di lei nulla esiste. Ne seguirebbe che ci sarebbe qualche luogo e qualche tempo in cui non esisterebbe nulla. E poiché ciò è falso — poiché luogo e tempo sono realtà — la somma natura non può essere in un luogo e in un tempo determinati. E se si dicesse che essa per sé è in un luogo e in un tempo determinati, ma è con la sua potenza in ogni luogo e tempo in cui esista qualcosa, ciò non sarebbe vero. Poiché infatti è manifesto che la sua potenza non è altro che il suo essere, la sua potenza non può in alcun modo essere senza di lei. Visto dunque che non è in un luogo e in un tempo determinati, è necessario che sia dovunque e sempre, cioè in ogni luogo e in ogni tempo.

XXI. LA SOMMA ESSENZA NON È IN NESSUN LUOGO E IN NESSUN TEMPO.

Se le cose stanno così, o ®5 la somma essenza è tutta in ogni luogo e in ogni tempo, o solo una parte di lei, sì che l’altra parte sia fuori di ogni luogo e tempo. Ma se in parte è in ogni luogo e tempo, e in parte no, vuol dire che ha parti; e ciò è falso , Non è dunque solo in parte dovunque e sempre.

Ma come può essere tutta dovunque e sempre? O infatti si deve intendere che tutta insieme 8” sia in ogni luogo e tempo, e le sue parti siano in diversi luoghi e tempi, o che è tutta anche in ogni singola parte. Ma se le sue parti sono in diversi luoghi e tempi, essa non sfugge alla composizione e divisione di parti, e si vide che ciò è del tutto alieno dalla somma natura. Perciò non è tutta in ogni luogo e tempo in modo tale che le sue parti siano in luoghi diversi . Resta allora da discutere la seconda ipotesi : come cioè la somma natura sia tutta in ogni singolo luogo e tempo. Ora questo non può essere se non o simultaneamente o in diversi tempi. E poiché tempo e spazio — che fin qui abbiamo potuto indagare con un unico procedimento, seguendo le medesime tracce — sembrano ora dividersi e sfuggire all’indagine per anfratti diversi, indaghiamoli e discutiamoli uno alla volta. Vediamo dunque prima se la somma natura può essere tutta simultaneamente in ogni singolo luogo o se deve esservi in tempi diversi. Poi faremo la ricerca per i tempi.

Se è tutta simultaneamente in ogni singolo luogo, in ogni singolo luogo vi è un singolo tutto. Come infatti un luogo si distingue dall’altro perché vi siano luoghi diversi, così ciò che è tutto in un luogo si distingue da quel tutto che è in un altro luogo nel medesimo tempo, e allora vi sono diversi «tutti». Nulla infatti di ciò che è tutto in un determinato luogo può non essere in quel luogo. Ma ciò di cui nulla può non essere in un determinato luogo è anche ciò di cui nulla può essere fuori di quel luogo, nel medesimo tempo. Dunque nulla di ciò che è tutto in un determinato luogo è fuori di quel luogo. Ma di ciò di cui nulla può esser fuori di un determinato luogo nulla può essere nel medesimo tempo in altro luogo. È perciò nulla di ciò che è tutto in un determinato luogo può essere simultaneamente in altro luogo 4. Come dunque lo stesso tutto che è in un luogo può essere anche in un altro luogo, se nulla di esso può essere in un altro luogo? Poiché dunque un unico tutto non può essere simultaneamente tutto in diversi luoghi, ne segue che nei singoli luoghi vi siano «tutti» diversi, se in ogni singolo luogo nello stesso tempo vi è un tutto. E allora, se la somma natura è tutta in uno stesso tempo in ognuno dei singoli luoghi, vi saranno tante somme nature quanti possono essere i singoli luoghi, che è una opinione irragionevole. Non è dunque tutta nello stesso tempo in ogni singolo luogo.

Ma se è tutta in diversi tempi in ogni singolo luogo ‘, quando è in un luogo, negli altri luoghi non vi è in quel tempo nessun bene e nessun essere, poiché senza di lei nulla esiste. Ma il fatto stesso che vi siano dei luoghi prova che questa conclusione è assurda, poiché i luoghi non sono nulla, ma qualcosa. La somma natura non è è dunque tutta in ogni singolo luogo in tempi diversi. Ma se non è tutta in ogni singolo luogo né nello stesso tempo né in tempi diversi, è chiaro che non è in nessun modo tutta in ogni singolo luogo.

Ora bisogna indagare se questa somma natura è tutta in ogni singolo tempo, o simultaneamente 4 o distintamente nei singoli tempi. Ma come potrebbe un tutto essere simultaneamente in ogni singolo tempo se i tempi stessi non sono simultaneamente ? E se è tutta nei singoli tempi separatamente e distintamente, come un uomo è tutto ieri, oggi e domani, si dirà propriamente che fu, è e sarà. Dunque la sua età, che è la sua stessa eternità, non è tutta simultaneamente, ma è estesa nelle parti del tempo.

Ora la sua eternità è la stessa somma essenza. Dunque la somma essenza è divisa in parti secondo le distinzioni dei tempi. Se infatti la sua età si prolunga nel corso dei tempi, essa ha, coi tempi stessi, un presente, un passato e un futuro. Ma che altro è la sua età e la sua durata se non la sua eternità? E allora, poiché la sua eternità è il suo essere, come prova indubitabilmente l’argomento svolto sopra, se la sua eternità ha un passato, un presente e un futuro, di conseguenza anche il suo essere avrà un passato, un presente e un futuro. Ma ciò che è passato non è presente né futuro, e ciò che è presente non è futuro né passato, e ciò che è futuro non è passato né presente. Come si regge dunque ciò che si manifestò sopra con chiara e razionale necessità, cioè che la somma natura non è in alcun modo composta, ma è sommamente semplice e immutabile? Come si regge, dico, se è altrimenti nei diversi tempi e ha parti distribuite nei diversi tempi? O, invece, se è vero quello, anzi perché è chiaramente vero, come è possibile questo ? In nessun modo dunque l’essere creatore, o la sua età o la sua eternità, è suscettibile di passato o di futuro. Come potrebbe infatti non avere un presente, se è veramente? Il fu, invece, significa il passato, e il sarà il futuro. Dunque essa non fu mai, né mai sarà. E perciò non è distintamente come neppure è simultaneamente tutta nei diversi tempi singolarmente presi.

Se dunque, come si è discusso, non è tutta in ogni luogo e in ogni tempo nel senso che sia tutta in una volta in tutti i luoghi e parzialmente nei singoli luoghi, né nel senso che sia tutta in ogni singolo luogo e tempo, è manifesto che in nessun modo essa è tutta in ogni luogo o tempo. E poiché si è pure accertato che non è in ogni luogo e tempo così da essere in parte in ogni luogo e in parte fuori, è impossibile che essa sia dappertutto e sempre. Non si può intendere infatti che essa sia dappertutto e sempre se non o tutta o in parte. E se non è affatto dappertutto e sempre, o sarà in un determinato luogo e tempo o in nessuno. Ora abbiamo già escluso che essa sia in un determinato luogo e tempo: non è dunque in nessuno, ossia non è mai, né in alcun luogo. Non può essere infatti se non in tutti o in uno. E tuttavia, poiché è incontrovertibile non solo che esiste per sé, senza principio e senza fine, ma che una cosa non può esistere in nessun luogo e in nessun tempo senza di lei, è necessario che essa sia sempre e in ogni luogo.

XXIII. COME ESSA È IN OGNI LUOGO E IN NESSUN LUOGO, IN OGNI TEMPO E IN NESSUN TEMPO.

Come vanno dunque d’accordo tesi così opposte nella loro formulazione e pur così necessariamente dimostrate ? Forse la somma natura è nel luogo e nel tempo in un modo che non le impedisce di esser tutta simultaneamente nei singoli luoghi e tempi, e tuttavia in modo tale che non vi siano diverse totalità ‘ma una sola, e la sua età, che è la vera eternità, non sia distribuita nel passato, nel presente e nel futuro. Sembra infatti che a questa legge siano tenute solo le realtà che sono nel luogo e nel tempo in modo tale da non oltrepassare i limiti del luogo né la durata del tempo. Quindi, per cose di questo tipo è pienamente vero che uno stesso tutto non può essere tutto insieme in luoghi e tempi diversi, ma per cose che non sono di questo tipo non è affatto necessario arrivare a tale conclusione. Giustamente, infatti, si dice che il luogo è proprio soltanto di quella realtà che, nella sua estensione, è contenuta e circoscritta dal luogo, come il tempo è proprio solo di quella realtà che in certo modo, nella sua durata, è misurata e terminata dal tempo. E perciò è vera la proposizione che non ha luogo né tempo quella realtà alla cui ampiezza o durata il luogo e il tempo non pongono alcun termine. Infatti, poiché né luogo né tempo producono in lei ciò che per solito producono, non a torto si dice che nessun luogo e nessun tempo le è proprio. È ciò che non ha luogo né tempo, non è soggetto alla legge del luogo e del tempo. Dunque ciò che non è chiuso né contenuto da luogo e da tempo non è in alcun modo costretto dalla legge del luogo e del tempo.

E come potrebbe la ragione non escludere nel modo più assoluto che la somma sostanza creatrice di tutte le cose sia inclusa nei limiti di luogo e di tempo — lei che necessariamente è diversa e libera dalla natura e dalla legge di tutte le cose che ha create dal nulla — quando piuttosto la sua potenza, identica con la sua essenza, chiude sotto di sé, contenendole, tutte le cose che ha create? E come non sarebbe impudente stoltezza dire che il luogo circoscrive la grandezza e il tempo misura la durata di quella suprema verità che non può assolutamente avere grandezza o piccolezza di estensione nel luogo o nel tempo ? Poiché dunque è condizione del luogo e del tempo che soltanto ciò che è chiuso dai loro limiti non sfugga alla divisione in parti — siano esse parti dello spazio o del tempo — né possa essere contenuto tutto insieme in diversi luoghi e in diversi tempi; e ciò invece che non è chiuso da limiti di luogo e di tempo non sia costretto dalla legge dei luoghi e dei tempi a una molteplicità di parti né sia impedito dall’esser tutto insieme presente in più luoghi e in diversi tempi; poiché questa, dicevo, è la condizione del luogo e del tempo, senza dubbio la somma sostanza, che non è recinta né contenuta da luogo e da tempo, non è neppure costretta dalla loro legge.

Quindi, poiché una necessità inevitabile esige che la somma essenza non sia assente da nessun luogo e tempo, e poiché la condizione del luogo e del tempo impedisce che essa sia tutta insieme presente in ogni luogo e in ogni tempo, è necessario che essa sia tutta insieme presente in questo luogo e tempo. Infatti l’esser presente in questo luogo e tempo non le impedisce di essere insieme e similmente presente in altro luogo e tempo; né l'essere stata, l'essere ora, l’essere in futuro fa sì che qualcosa della sua eternità sia venuto meno al tempo presente con quel passato che ormai non è più, o passi con quel presente che a mala pena è, o abbia da venire con quel futuro che non è ancora. Ciò che, infatti, non ha un essere chiuso nel luogo e nel tempo non è in alcun modo legato o impedito dalla legge dei luoghi e dei tempi. E quando si dice che la somma essenza è in un luogo o in un tempo, sebbene l’espressione verbale sia uguale a quella che si adopera per le realtà spaziali e temporali, per la consuetudine del modo di parlare, tuttavia il significato è diverso, perché copre realtà dissimili.

Quando infatti si parla di realtà spaziali e temporali l’espressione significa due cose: che sono presenti nel luogo e nel tempo in cui si dice che sono, e che sono contenute in quel luogo e in quel tempo; a proposito della somma essenza invece si intende una cosa sola: che è presente, non che vi è contenuta. E perciò, se l’uso comune lo permettesse, meglio si direbbe che la somma essenza è con un luogo o con un tempo, che non: è in un luogo o in un tempo. Si pensa infatti che una cosa sta contenuta quando si dice che è in un altro più che non si pensi quando si dice che è con un altro.

In nessun luogo o tempo può dirsi dunque propriamente la somma essenza, perché non è contenuta da nessun’altra realtà; e tuttavia si può dire in certo modo che è in ogni luogo e tempo, perché tutto ciò che è distinto da essa, per non cadere nel nulla, è sostenuto dalla sua presenza. È in ogni luogo e tempo, perché non è assente da nulla; non è in nessun luogo e tempo, perché non ha luogo né tempo. Non ha in sé distinzione di luoghi né di tempi: di qui o di là o di dove che sia, di oggi, ieri o domani; né è secondo il labile presente di cui viviamo, o fu o sarà secondo il passato o il futuro; questi modi di esistere infatti sono propri delle realtà circoscritte e mutevoli, mentre essa è illimitata e immutabile. E tuttavia questi modi possono esserle attribuiti poiché la somma essenza è presente in tutte le cose circoscritte e mutevoli come se fosse lei stessa circoscritta nei luoghi e mutasse nei tempi. È dunque manifesto quel che basta per risolvere la difficoltà: come la somma essenza sia dovunque e sempre, e tuttavia in nessun luogo e in nessun tempo: una verità concorde nella diversità dei significati.

XXIII. COME SI POSSA MEGLIO INTENDERE CHE ESSA È DAPPERTUTTO PIUTTOSTO CHE IN OGNI LUOGO.

Poiché consta che la somma natura è in tutto ciò che esiste, non meno di quanto sia in ogni luogo, e vi è non già come contenuta ma come quella che contiene tutte le cose, penetrandole; perché non si dice che è dappertutto, appunto in questo senso, sì da intendere che è in ogni ente, piuttosto che dire soltanto che è in ogni luogo ? La verità infatti ci presenta questo significato e la proprietà dell’avverbio di luogo non lo impedisce. Siamo soliti infatti attribuire senza errore termini che indicano originariamente un rapporto locale a realtà che non sono luoghi né sono contenute in un luogo che le circoscriva. Per esempio, dico che l'intelletto è nell'anima dove è la razionalità . Dove è un termine locale, e tuttavia l’anima non contiene circoscrivendola localmente nessuna realtà, né l'intelletto o la razionalità son contenuti in un luogo. Perciò meglio si dice, secondo verità, che la somma natura è dappertutto, intendendo che è in tutto ciò che esiste, piuttosto che intendere che è soltanto in tutti i luoghi. È poiché non può esser dappertutto se non in quel significato, è necessario che essa sia in tutto ciò che esiste, così che, una e identica, sia tutta insieme in ciascuna cosa.

XXIV. COME SI POSSA MEGLIO INTENDERE CHE È SEMPRE, PIUTTOSTO CHE IN OGNI TEMPO.

Consta pure che la somma sostanza è senza principio e senza fine, che non ha passato né futuro, né quel temporale, ossia labile presente che abbiamo noi; poiché la sua età o eternità, che è identica con lei, è immutabile e senza parti.

Non serve dunque molto meglio la parola sempre, che indica la totalità del tempo, a significare veramente l'eternità che non è mai dissimile da sé, che non la varietà dei tempi, che è sempre in qualcosa non simile a sé? Perciò, se diciamo che la somma sostanza è sempre, poiché in lei sono identici l’essere e il vivere, nulla serve meglio di questa espressione a farci intendere che essa èx e vive eternamente, cioè possiede perfettamente e tutta insieme una vita interminabile.

La sua eternità è < infatti una vita interminabile che esiste tutta insieme perfettamente.

Poiché infatti è stato sufficientemente chiarito sopra che la somma sostanza è identica alla sua vita e alla sua eternità, né ha termini in nessun modo, ed è tutta simultaneamente e perfettamente, che altro è la vera eternità, che compete a lei sola, se non una vita interminabile, che esiste tutta insieme e perfettamente? Con questo solo infatti si percepisce chiaramente che la vera eternità appartiene a quella sola sostanza, che abbiamo dimostrato essere non creata, ma creatrice; poiché nel concetto della vera eternità è implicita la negazione di ogni termine di inizio e di fine; e si dimostra che questo non conviene a nessuna creatura, per il fatto stesso che le creature sono fatte dal nulla.

XXV. LA SOMMA ESSENZA NON È SOGGETTA A MUTAMENTO ACCIDENTALE.

Ma questa essenza che si manifestò assolutamente identica a se stessa nella sostanza, non potrebbe diversificarsi almeno accidentalmente? In verità, come sarebbe sommamente immutabile se potesse non dico essere, ma esser soltanto concepita variabile nei suoi accidenti ? E d’altra parte come potrebbe non avere accidenti, quando il suo stesso esser maggiore di ogni altra realtà e da essa dissimile sembra un suo attributo accidentale ? Ma in che cosa si oppongono il poter ricevere certe proprietà che si chiamano accidenti e la naturale immutabilità, se, per il fatto di acquistare un accidente, non segue alcuna variazione nella sostanza? Alcuni accidenti, infatti, non possono esserci o non esserci senza dar luogo a qualche variazione della sostanza che ne partecipa, come per esempio i colori; altri col loro esserci e non esserci non sembrano produrre nessun mutamento in ciò a cui si attribuiscono, come per esempio certe relazioni‘, È chiaro infatti che io non sono né più grande né più piccolo né eguale né simile a un uomo che nascerà l’anno prossimo; e, quando sarà nato, potrò avere e perdere tutte queste relazioni con lui, senza mutare affatto, secondo che crescerà o cambierà per qualità diverse. È manifesto dunque che, fra le proprietà che si dicono accidenti, alcune portano con sé una certa mutevolezza, altre invece non tolgono affatto l’immutabilità.

Come dunque la somma natura, nella sua semplicità, non ammette mai accidenti che portino mutamento, così non esclude che si dicano di lei attributi che non si oppongono in nessun modo alla somma immutabilità, senza tuttavia che a lei sopravvenga nulla che possa farla concepire variabile. E invero, come gli accidenti che con ia loro presenza o assenza danno luogo a mutamento aggiungono veramente qualcosa alla realtà che fanno variare, così quelli che non fanno questo, impropriamente son detti accidenti. Come dunque la somma natura è sempre sostanzialmente identica a se stessa, così neppure accidentalmente si diversifica da sé. E comunque stiano le cose circa la proprietà del termine accidente, quello che abbiamo detto resta vero, poiché della natura sommamente immutabile non si può dire nulla che possa farla pensare mutevole.

XXVI. IN CHE MONO LA SOMMA NATURA DEBBA ESSER DETTA SOSTANZA, POICHÉ È FUORI DELLA CATEGORIA DI SOSTANZA, ED È SINGOLARMENTE TUTTO CIÒ CHE È.

Ma, se si è d’accordo su ciò che abbiamo visto intorno alla semplicità di questa natura, come può essa dirsi sostanza ? Infatti, ogni sostanza è suscettibile di differenze e di mutazioni accidentali, mentre la immutabile purezza di questa natura è inaccessibile a ogni aggiunta o mutazione. Come dunque si potrà ritenere che essa sia sostanza? A meno che non si intenda sostanza in luogo di essenza, e così essa sia, come in realtà è, fuori e sopra ogni sostanza. Quanto, infatti, quell’essere che è per sé tutto ciò che è, e crea dal nulla ogni altro essere, è diverso dall’essere che è fatto dal nulla e deriva da un altro tutto ciò che è — tanto dista la somma sostanza dalle cose che non si identificano con lei. E poiché essa sola, fra tutte le nature, ha da sé, senza aiuto di altri, tutto ciò che è, come potrebbe non essere tutto ciò che è, anche presa singolarmente, ossia senza il consorzio della sua creatura ? È però, se anche le si attribuisce un nome che è comune anche ad altri, tale nome va inteso in un significato molto diverso.

XXVII. LA SOMMA NATURA NON È CONTENUTA NELLA COMUNE CATEGORIA DI SOSTANZA, E TUTTAVIA E SOSTANZA E SPIRITO INDIVIDUO.

Si è concluso dunque che quella sostanza non è inclusa nella comune categoria delle sostanze, poiché nessuna natura può aver qualcosa di essenzialmente comune con lei. Infatti, poiché ogni sostanza o è universale, ossia comune essenzialmente a una pluralità di sostanze (come l’esser uomo è comune ai singoli uomini), o è individua, ossia ha comune con altre una essenza universale {come ogni singolo uomo ha comune con gli altri l’essere uomo), come si potrebbe concepire che fosse contenuta nella comune categoria delle sostanze quella che né può essere divisa in una pluralità di sostanze, né può essere raccolta con altre per comunità di essenza? Poiché tuttavia essa non solo certissimamente esiste, ma è la suprema realtà, e poiché l'essenza di ogni cosa suol dirsi sostanza, sarà lecito dirla sostanza, se qualcosa si può dire degnamente di lei. E poiché le essenze più alte sono lo spirito e il corpo, e, fra le due, lo spirito vale più del corpo, si deve affermare che essa è spirito e non corpo. Poiché inoltre uno spirito non ha parti, né possono esserci più spiriti uguali, è necessario che essa sia uno spirito individuo. Infatti, poiché né è composta di parti, come abbiamo visto sopra, né può mutare per nessuna differenza sostanziale o accidentale, è impossibile che sia divisibile in qualunque modo.

XXVIII. QUESTO SPIRITO È ASSOLUTAMENTE, E LE COSE CREATE, PARAGONATE A LUI, NON SONO.

Segue da ciò che abbiamo detto che questo spirito, che esiste così in un suo modo mirabilmente singolare e singolarmente mirabile, in certo senso è il solo essere, e le altre cose che sembrano esistere, paragonate a lui, non sono. Se infatti si bada bene, si vedrà che esso solo è assolutamente, perfettamente e pienamente, mentre tutte le altre cose quasi non sono e a mala pena si può dire che siano. Poiché infatti quello spirito, per la sua immutabile | eternità, in nessun modo si può dire che fu o sarà, per qualche suo mutamento, ma semplicemente è — né diventa qualcosa che non sia stato o non sia più, né smette di essere ciò che fu o sarà, ma è quel che è una volta per tutte e simultaneamente e interminabilmente — poiché dunque tale è il suo essere, a buon diritto si dice che è semplicemente e assolutamente e perfettamente.

Poiché invece tutte le altre cose, mutando, o furono talora o saranno in certi loro aspetti ciò che ora non sono, o sono ciò che talora non furono o non saranno — e poiché ciò che sono state non è più, e ciò che saranno non è ancora, e ciò che sono, in un presente labile e brevissimo e a mala pena esistente, a mala pena può dirsi essere — poiché dunque esistono in modo così mutevole, non a torto si nega che possano dirsi semplicemente e perfettamente e assolutamente essere, e si afferma che in certo senso non sono e a mala pena sono essere.

Inoltre, tutte le cose diverse da lui non sono venute dal non essere all’essere per forza propria, ma in virtù di un altro, e poiché, se non sono sostenute da un altro e son lasciate a sé, tornano al non essere, come si può dire che competa loro l’essere assolutamente, perfettamente, e in senso pieno, e non piuttosto l'essere a mala pena e quasi il non essere? E poiché solo l’essere di quello spirito ineffabile non può essere concepito come iniziato dal non essere o tale da declinare dall'essere al non essere, non se ne deve forse concludere che solo il suo essere può concepirsi semplice, perfetto e assoluto? E in certo modo si può dire a buon diritto che ciò che, solo, è totalmente perfetto, semplice e assoluto è il solo essere. Al contrario, ciò che, per le considerazioni fatte sopra, risulta non essere assolutamente, in senso pieno e perfettamente, ma essere appena e quasi non essere, in certo modo si dice giustamente non essere. In questo senso, dunque, è solo lo spirito creatore, e non sono le creature; tuttavia non sono del tutto prive di essere, perché sono state fatte essere dal nulla, in virtù di colui che, solo, è assolutamente.

XXIX. LA SUA PAROLA È IDENTICA CON LUI E COSTITUISCE CON LUI UN UNICO SPIRITO.

Ora, visto, dietro la guida della ragione, ciò che si manifesta delle proprietà di questa somma natura, stimo opportuno considerare qualcosa, se posso, di quel suo dire 5, per il quale sono state fatte tutte le cose. Infatti, poiché tutto ciò che finora ho potuto scoprire ha la forza inflessibile della ragione, sono spinto a una più attenta ricerca intorno al suo dire, poiché si dimostra che esso si identifica col sommo spirito. Se infatti egli ha creato tutto per se stesso, e tutto ciò che è creato da lui è stato fatto mediante quella dizione, come potrebbe essa differire da lui? Inoltre, ciò che abbiamo scoperto finora mostra inconfutabilmente che nulla mai poté né può sussistere all’infuori dello spirito creatore e della sua creatura.

Ora è impossibile che questo dire del sommo spirito appartenga alle cose create, poiché tutto ciò che di creato sussiste è stato fatto in virtù di esso, ed esso non ha potuto esser fatto da sé (nulla infatti può esser fatto da sé, poiché ciò che è fatto è posteriore a ciò da cui è fatto, e nulla è posteriore a se stesso). Se ne conclude dunque che questo dire del sommo spirito, poiché non può essere creatura, è identico col sommo spirito. Infine questo dire non può essere concepito se non come l’intelligenza con la quale il sommo spirito conosce tutte le cose. Che altro è infatti per lui dire una cosa, in questo senso del termine dire, se non conoscerla? Non è infatti come l’uomo, il quale non sempre dice ciò che conosce. Se dunque la natura sommamente semplice è identica con la sua intelligenza, come è identica con la sua sapienza, essa non deve distinguersi dal suo dire. Ma poiché si è già mostrato che il sommo spirito è unico e assolutamente individuo, è necessario che il suo dire gli sia consustanziale, e non siano due, ma un solo spirito.

XXX. IL DIRE DEL SOMMO SPIRITO NON CONSTA DI MOLTE PAROLE, MA È UNA PAROLA SOLA.

Perché dovrei dunque dubitare di ciò che ho lasciato in dubbio sopra, e cioè se il dire divino consti di molte parole o di una sola? Se infatti è così consustanziale alla somma natura da esser con lei un solo spirito, poiché la somma natura è assolutamente semplice, tale sarà anche il suo dire. Non consta dunque di molte parole, ma è una parola sola per la quale sono fatte tutte le cose.

XXXI. LA PAROLA NON È SIMILITUDINE DELLE COSE CREATE, MA VERITÀ DELLA LORO ESSENZA; LE COSE CREATE INVECE SONO UNA IMITAZIONE DELLA VERITÀ. QUALI SIANO LE NATURE PIÙ REALI E MIGLIORI DELLE ALTRE.

Ma, ecco, mi si presenta un problema non facile e che non posso lasciare sospeso. Tutte le parole, infatti, con le quali diciamo mentalmente le cose, cioè le pensiamo, sono similitudini e immagini delle cose delle quali sono espressioni; e ogni similitudine o immagine è più o meno vera quanto più o meno imita la cosa di cui è similitudine. Cosa dobbiamo dunque pensare della parola con la quale sono dette e per la quale sono state create tutte le cose ? Sarà o non sarà similitudine delle cose per essa create ? Se infatti è una vera similitudine delle cose mutevoli, non sarà consustanziale alla somma immutabilità; il che è falso. Se poi è una similitudine qualunque, e non del tutto vera, delle cose mutevoli, la parola della somma verità non sarà del tutto vera, il che è assurdo. E se non ha nessuna somiglianza con le cose mutevoli, come si può dire che le cose sono fatte sul suo modello ? Ma forse toglieremo ogni dubbio se diremo così: come si dice che in un uomo vivo è la verità dell’uomo, e in un uomo dipinto vi è la similitudine o l’immagine di quella verità, 9 così si deve pensare che la verità dell'essere è in quella parola la cui essenza esiste in modo così incomparabile, che in certo modo essa sola esiste; nelle cose invece che a paragone di lei quasi non sono, e tuttavia per essa e sul suo modello sono state fatte, vi è una imitazione di quella somma essenza. Così, infatti, la parola della somma verità, che è essa stessa somma verità, non subirà nessun aumento o detrimento per il fatto di essere più o meno simile alle creature; ma piuttosto ogni creatura tanto più sarà, e tanto più nobile sarà, quanto più sarà simile a colui che è i sommo essere ed è sommamente grande.

Seguendo questo criterio, forse, anzi non forse ma certamente, ogni intelletto valuta le nature viventi più delle non viventi, le senzienti più delle non senzienti, le razionali più delle irrazionali. Poiché infatti la somma natura non solo è, ma vive e sente ed è razionale, è chiaro che, fra gli enti, ciò che in qualche modo vive è più simile a lei di ciò che non vive affatto; e ciò che in qualunque modo, anche solo col senso corporeo, conosce qualcosa le è più simile di ciò che non sente nulla; e ciò che è razionale le è più simile di ciò che non è capace di ragione. Ed è pure chiaro per un motivo simile che alcune nature hanno un grado maggiore o minore di essere che non altre. Come infatti vale di più ciò che per la sua naturale essenza è più vicino all’ottimo: così ha un grado maggiore di essere quella natura la cui essenza è più simile alla somma essenza.

È ci se ne può facilmente render conto così: se a una sostanza che vive, sente e intende si toglie col pensiero l’essere razionale, poi l'essere sensibile, poi l'essere vitale, infine il puro essere che rimane, chi non vede che tale sostanza, che così a poco a poco è distrutta, è condotta per gradi a esser sempre meno e infine a non essere? Ora gli attributi che, quando sono tolti uno alla volta, portano una essenza a esser sempre meno, la portano a essere sempre più quando siano ordinatamente assunti da lei.

È dunque manifesto che la sostanza vivente è più della non vivente e la sensibile più della non sensibile e la razionale più della non razionale. Non è dubbio, perciò, che ogni essenza è più e vale di più quanto più è simile a quell’essenza che è e vale sommamente. È dunque abbastanza chiaro che nella parola per la quale sono state fatte tutte le cose non vi è la loro similitudine, ma il loro vero e semplice essere; e nelle cose create non vi è vero e semplice essere, ma solo una imitazione di quel vero essere. Quindi è necessario non già che quella parola sia più o meno vera secondo che somiglia più o meno alle cose create, ma che ogni natura creata sussista in un più alto grado di essere e di valore quanto più si avvicina a quella parola.

XXXII, IL SOMMO SPIRITO DICE SE STESSO CON UNA PAROLA ETERNA.

Ma, se le cose stanno così, come mai quella parola, che è semplice verità, può esprimere cose alle quali non è simile, quando ogni parola con la quale si esprime mentalmente una cosa deve esser similitudine della cosa stessa? E, se non è espressione 5 delle cose che per mezzo suo sono state fatte, come si può affermare che è parola ? Ogni parola infatti esprime la cosa alla quale si riferisce.

Infine, se non ci fosse la creatura, non ci sarebbe una parola che la esprime. E allora? Dobbiamo forse concludere che se non esistesse la creatura non vi sarebbe affatto quella parola che è la stessa somma essenza la quale non ha bisogno di nulla ? O forse la somma essenza, che è parola, sarebbe eternamente, ma non sarebbe parola se nulla fosse da lei creato? Non si può esprimere, infatti, ciò che né fu, né è, né sarà. Ma, seguendo questo ragionamento, se non vi fosse nessuna realtà oltre il sommo spirito, non vi sarebbe in lui parola; e se in lui non vi fosse parola egli non direbbe nulla; e se non dicesse nulla, poiché in lui si identificano il dire e l’intendere, egli non intenderebbe nulla. Se non intendesse nulla, ne seguirebbe che la somma sapienza, identica col sommo spirito, non intenderebbe nulla; il che è del tutto assurdo.

Che dunque ? Se infatti non intendesse nulla, come potrebbe essere somma sapienza ? D’altronde, se non vi fosse nulla fuori di lui, che cosa potrebbe egli conoscere ? Ma non conoscerebbe forse se stesso ? E come si potrebbe concepire che la somma sapienza non conosca se stessa, quando la mente ragionevole può non solo aver presente 5 sé, ma la stessa somma sapienza, e conoscerla e conoscere se stessa? Se infatti la mente umana non avesse nessuna memoria o intelligenza della somma sapienza edi sé, non potrebbe distinguere sé dalle creature irrazionali né distinguere la somma sapienza da ogni creatura, come fa ora il mio spirito discorrendo tacitamente fra sé e sé.

Dunque quel sommo spirito, come è eterno, così eternamente è memore di sé e si conosce, a somiglianza della mente razionale; anzi, non a somiglianza di nessuno, ma in primo luogo, e la mente razionale a somiglianza di lui. Ora, se si conosce eternamente, eternamente si esprime. E se eternamente si esprime, eternamente è presso di lui la sua parola. O la si pensi dunque senza nessuna altra realtà esistente o con altre realtà, è necessario che la sua parola a lui coeterna sia con lui.

XXXIII. Con UNA SOLA PAROLA EGLI DICE SE STESSO E LA CREATURA.

Ma, ecco, mentre mi interrogavo sulla parola con la quale il creatore dice tutte le cose che crea, mi si fece presente la parola con la quale egli, che ha fatto tutte le cose, dice se stesso. Dice forse se stesso con una parola diversa da quella con la quale dice le cose che crea; o invece con la stessa parola con la quale esprime se stesso dice tutto ciò che crea? Infatti anche la parola con la quale esprime se stesso è necessariamente identica con lui, come è venuto in luce a proposito della parola con la quale dice le cose create. Poiché, infatti, la ragione ci costringe ad ammettere la necessità della parola con la quale il sommo spirito esprime se stesso, anche se non esistesse nulla all’infuori di lui, qual verità è più certa di questa: che la sua parola è identica con lui ? Dunque, se dice se stesso e le cose che crea con una parola consustanziale a sè, è manifesto che una sola è la sostanza della parola con cui esprime se stesso e di quella con cui dice la creatura.

E se la sostanza è una sola, come potrebbero esser due le parole? Ma forse l'identità di sostanza non ci costringe ad ammettere unità della parola, perché colui che si esprime con queste parole ha una sostanza identica con queste, e tuttavia non è parola. Eppure la parola con la quale la somma sapienza esprime sé può dirsi sua parola secondo l’esatto significato detto sopra, perché ha perfetta similitudine con lui. Non si può infatti negare in nessun senso che, quando la mente razionale si conosce pensandosi, nasca nel suo pensiero una immagine di sé; anzi lo stesso pensiero di sé è una immagine sua, simile a sé, quasi fosse formata da una impressione di sé. Infatti, quando la mente vuol pensare veramente una cosa 0 con una immagine corporea 0 con la ragione, si sforza di esprimerne una similitudine nel suo pensiero. E quanto più vi riesce, con tanta maggior verità pensa la cosa. È questo si vede più chiaramente quando pensa una realtà diversa da sé; specialmente quando pensa un corpo. Quando infatti penso un uomo che conosco, e che è assente, la forza del mio pensiero prende corpo in una immagine di lui, che è tale quale quella che, mediante la vista, avevo attratto nella memoria. E questa immagine nel pensiero è il verbo di quell'uomo che esprimo pensandolo. Lo spirito razionale, quando si conosce pensando a sé, ha dunque con sé l’immagine sua nata da sé, cioè ha il pensiero di sé formato a somiglianza di sé, quasi vi fosse impressa.

Ora chi potrebbe negare che la somma sapienza, in questo modo, quando si conosce dicendosi, generi una similitudine sua consustanziale a sé, cioè il suo verbo ? E questo verbo, sebbene non si possa dire nulla in modo adeguato di una realtà così singolarmente eminente, tuttavia non a torto può dirsi similitudine e immagine e figura e impronta della somma sapienza. Il verbo, invece, col quale dice la creatura non è affatto espressione della creatura in modo simile a quello detto ora, perché non è similitudine della creatura, anzi ne è la principale essenza. Quindi ne segue che la somma sapienza non dice la creatura con un verbo della creatura. E allora con che verbo la dice? Quello che dice, infatti, lo dice con una parola, e la parola è parola ossia similitudine di qualche cosa. Ma se non dice altro che sé o la creatura, non può dir nulla se non o col suo verbo o con quello della creatura. Se dunque non dice nulla con il verbo della creatura, tutto quello che dice, lo dice col suo verbo. Con uno stesso verbo, dunque, il creatore dice se stesso e ciò che ha creato.

XXXIV. COME PUÒ DIRE LA CREATURA COL SUO VERBO.

Ma come realtà tanto diverse come ii creatore e l’essere creato possono esser dette con uno stesso verbo, tanto più che il verbo è coeterno a chi lo esprime, mentre la creatura non è coeterna al creatore? Forse mentre il sommo spirito dice se stesso, dice tutto ciò che è creato perché il creatore è somma sapienza e somma ragione, e in questa è presente tutto ciò che è creato — come l’opera d’arte è sempre presente nell’arte stessa ed è identica con questa, non solo mentre è prodotta, ma anche prima di esser prodotta, e anche quando è distrutta.

Anche prima di esser create, infatti, e quando sono create, e quando si corrompono o mutano in qualche modo, le cose sono sempre presenti nel sommo spirito, non in quello che sono in se stesse, ma in quanto si identificano con lui, In se stesse infatti sono un’essenza mutevole creata secondo un modello immutabile; in lui invece sono la stessa essenza prima e la prima verità dell’essere, e hanno tanto più essere e valore quanto più sono simili a lui. In questo modo si può non a torto affermare che, mentre il sommo spirito dice se stesso, dice anche con un solo e identico verbo tutto ciò che è creato.

XXXV. TUTTO CIÒ CHE È STATO CREATO È VITA E VERITÀ NEL VERBO E NELLA SCIENZA DEL CREATORE.

E poiché si è dimostrato che il verbo del sommo spirito è a lui consustanziale e perfettamente simile, ne segue che tutto ciò che è in lui è pure, e nel medesimo modo, nel suo verbo. Tutto ciò, dunque, che è stato creato — viva o non viva, sia in se stesso in qualunque modo — in lui è la vita stessa e la verità. E poiché per il sommo spirito sono lo stesso il sapere e l’intendere o il dire, necessariamente egli dice o intende tutte le cose allo stesso modo in cui le sa. Come dunque tutto è nel suo verbo vita e verità, così è pure nella sua scienza.

XXXVI. IL SOMMO SPIRITO DICE O SA LE COSE CREATE IN MODO A NOI INCOMPRENSIBILE.

Da quel che abbiamo detto si può comprendere chiaramente che il modo in cui tale spirito esprime e sa le cose create non può esser compreso dalla scienza umana. Non c’è dubbio infatti che le sostanze create sono in modo diverso in se stesse e nella conoscenza che ne abbiamo. In se stesse infatti sono per il loro essere; nel nostro sapere invece non! c'è il loro essere, ma una loro similitudine. Risulta dunque che sono in modo più vero in se stesse che nel nostro sapere, poiché sono in modo più vero là dove sono per il loro essere che dove sono per una loro similitudine.

E poiché si è dimostrato che ogni sostanza creata è in modo più vero nel verbo, ossia nell’intelligenza del creatore, che in se stessa — poiché è più vero l’essere del creatore che quello del creato — come potrebbe la mente umana comprendere il modo di quel dire e di quel sapere che è tanto superiore e più vero delle sostanze create, se il nostro sapere è tanto inferiore a esse quanto la loro similitudine dista dal loro essere?

XXXVII. IL RAPPORTO FRA IL SOMMO SPIRITO E LA CREATURA È LO STESSO DI QUELLO FRA IL SUO VERBO E LA CREATURA, MA NON VI SONO DUE RAPPORTI DIVERSI.

Ma poiché gli argomenti esposti sopra dimostrano che il sommo spirito ha creato tutte le cose mediante il suo verbo, non è forse vero anche che il verbo stesso ha creato tutte le cose? Infatti, poiché il verbo è consustanziale a colui di cui è verbo, necessariamente il verbo è la somma essenza. Ora la somma essenza è una sola, lei sola è creatrice, ed è l’unico principio di tutte le cose create. Lei sola infatti ha creato ogni cosa dal nulla, e non mediante altro da sé; e perciò tutto quello che il sommo spirito fa, lo fa similmente il suo verbo. Dunque, quale è il rapporto del sommo spirito alla creatura, tale è similmente il rapporto del suo verbo; ma non si tratta di due diversi rapporti, poiché non vi sono due somme essenze creatrici.

Come dunque il sommo spirito è creatore e principio delle cose, così pure è il suo verbo; eppure non sono due creatori, ma un solo creatore e un solo principio.

XXXVIII. NON SI PUÒ DIRE CHE COSA SIANO QUFI DUE, SEBBENE CI SIA FRA LORO UNA DUALITÀ.

Bisogna dunque esaminare attentamente un fatto che sembra realizzarsi nel sommo spirito e nel suo verbo, e che è del tutto insolito nelle altre realtà. È certo infatti che appartiene singolarmente a ognuno dei due ciò che costituisce la loro essenza e ciò che dice rapporto alla creatura, sì che in ciascuno è perfetto; e tuttavia non ammette pluralità. Sebbene infatti il sommo spirito sia perfettamente somma verità e creatore, e altrettale sia il il suo verbo, tuttavia essi non sono due verità e due creatori. Ma, stando così le cose, è pure manifesto, in modo mirabile, che il sommo spirito non può essere il suo verbo, né il verbo può essere colui di cui è verbo.

Sicché, in ciò che significa la loro sostanza e il loro rapporto con la creatura, essi hanno una indivisibile unità, ma nell’aspetto per cui il sommo spirito non procede dal verbo, e il verbo invece procede da lui, ammettono una ineffabile pluralità.

Certo una pluralità ineffabile. Sebbene infatti la necessità ci costringa a dire che sono due, non si può esprimere in alcun modo che cosa siano questi due. Infatti, anche se si può dire che son due uguali fra loro, o qualcosa di simile, se però ci si chiede che cosa sono quei due uguali fra loro, non si può dire che siano due cose, come si dice per esempio che due linee sono uguali fra loro, e due uomini sono simili. Non sono infatti due spiriti, né due creatori uguali, né altra cosa che significhi la loro essenza 0 il loro rapporto alla creatura. Né sono due cose che implichino relazione con altro, poiché non sono due verbi o due immagini. Il verbo infatti, proprio in quanto verbo o immagine, è relazione, perché non può essere espressione o immagine se non di qualche cosa; e queste proprietà sono di uno solo dei due, non dell'altro; poiché colui di cui è il verbo o l’immagine non è verbo né immagine.

Si conclude dunque che non si può esprimere che cosa siano quei due, il sommo spirito e il suo verbo, sebbene siamo costretti a dire che sono due per certe proprietà che appartengono a uno solo dei due. Di uno infatti (del verbo) è proprio il procedere dall’altro, e di questo (il sommo spirito) è proprio che un altro proceda da lui.

XXXIX. IL VERBO NASCE DAL SOMMO SPIRITO.

Nessun termine è più familiare di questo per esprimere ciò che abbiamo detto: che è proprio dell’uno (il verbo) il nascere dall’altro, ed è proprio del sommo spirito che un altro nasca da lui. Risulta infatti ormai certo che il verbo del sommo spirito non procede da lui come ne procedono le creature, ma ne procede come creatore da creatore, sommo da sommo e, per esprimere brevemente la totale similitudine fra i due, diremo: il medesimo procede dal medesimo; sì che tutto ciò che è, è da lui. Poiché dunque è manifesto che il verbo del sommo spirito procede da lui solo, in tal modo da ritenere, quasi come figlio, una perfetta similitudine del genitore, eppure non procede da lui come creatura, il modo più conveniente di pensare questo rapporto è quello di intenderlo come una nascita.

Se infatti di tante cose si dice che nascono da quelle dalle quali hanno l'essere, anche se non hanno alcuna somiglianza, come figlio con padre, con ciò da cui si dice che nascono (diciamo infatti che i capelli nascono dal capo e i frutti dall’albero, sebbene i capelli non siano simili al capo né i frutti all’albero); se, dicevo, di molte cose così fatte si dice non a torto che nascono, in modo tanto più conveniente si potrà dire che il verbo del sommo spirito procede nascendo da lui, quanto più perfettamente, procedendo da lui, ne porta somiglianza.

XL. È VERISSIMO CHE IL SOMMO SPIRITO È GENITORE E IL VERBO È FIGLIO.

Ora, se in modo convenientissimo si dice che il verbo nasce dal sommo spirito ed è tanto simile a colui dal quale nasce, perché sarà giudicato simile come figlio al padre e non si dovrà dire piuttosto che il sommo spirito tanto più veramente è padre e il verbo tanto più veramente figlio in quanto il sommo spirito solo basta a generarlo perfettamente e ciò che da lui nasce ne esprime la similitudine ? Infatti, nelle altre cose tra le quali vi è certamente un rapporto di padre a figlio, nessuna genera da sola in modo tale da non aver bisogno di un’altra per generare la prole; nessuna è generata in modo tale da offrire una totale similitudine del genitore, senza nessuna dissomiglianza.

Se dunque il verbo del sommo spirito procede dalla sola essenza di lui, e gli è così singolarmente simile che nessun altro figlio proceda dalla sola essenza del padre e nessuno sia così somigliante al padre, a nessuna cosa meglio che al sommo spirito e al suo verbo si adatterà il rapporto di padre a figlio.

E perciò è proprio del sommo spirito l’esser padre nel modo più vero, e del verbo l’essere, nel modo più vero, figlio.

XLI. IL SOMMO SPIRITO GENERA NEL MODO PIÙ VERO, E IL VERBO NEL MODO PIÙ VERO È GENERATO.

Ma la conclusione sopra enunciata non può reggersi se il sommo spirito non genera nel modo più vero e il verbo non sia nel modo più vero generato. Come dunque è evidente quella conclusione, così è necessario sia certa la condizione. Perciò è proprio del sommo spirito il generare nel modo più vero, e del verbo l'essere nel modo più vero generato.

XLII. È PROPRIO DEL SOMMO SPIRITO, E NEL MODO PIÙ VERO, L’ESSER GENITORE E PADRE; DEL VERBO L’ESSER GENERATO E FIGLIO

Vorrei ormai, e forse potrei, concludere che il sommo spirito è padre nel modo più vero, e il verbo nel modo più vero figlio; ma ritengo che non debba esser trascurato neppur questo problema: se sia più adatta la denominazione di padre e figlio o quella di madre e figlia, visto che in loro non vi è alcuna distinzione di sesso.

Se infatti è conveniente dirli padre e figlio, visto che entrambi sono spirito, perché non dovrebbero, con analogo argomento, esser detti madre e figlia, visto che entrambi sono verità e sapienza? Forse perché nelle nature che hanno differenza di sesso è proprio del sesso migliore esser padre e figlio, mentre è del sesso inferiore esser madre e figlia ? Così è infatti naturalmente nella maggior parte dei casi; ma in certi casi è il contrario: per esempio in certe specie di uccelli, nelle quali il sesso femminile è sempre superiore e più forte, quello maschile inferiore e più debole.

O certo è più conveniente chiamar padre che madre il sommo spirito perché il padre è sempre causa prima e principale della prole. Infatti, se in certo modo la causa paterna precede sempre quella materna, sarebbe troppo incongruo dare il nome di madre a quel genitore che non ha bisogno di esser preceduto né di essere unito a nessun’altra causa per generare. È verissimo dunque che il sommo spirito è padre della sua prole. E se il figlio somiglia sempre più della figlia al padre, e nulla è più somigliante a un altro di quel che sia la prole al sommo padre, sarà verissimo che questa prole non è figlia ma figlio. Come dunque è proprio del sommo spirito il generare nel modo più vero, e del verbo l’esser generato, così è proprio di quello l’esser genitore nel modo più vero, e di questo l’esser, nel modo più vero, generato. È come l’uno è verissimo genitore e questo verissima prole, così l’uno è verissimo padre e l’altro verissimo figlio.

XLIII. RIESAME DELLA COMUNITÀ FRA IL PADRE E IL FIGLIO E DELLE PROPRIETÀ DI CIASCUNO.

Dopo aver scoperto tante proprietà del padre e del figlio, per le quali si dimostra che vi è una mirabile, ineffabile ma inevitabile pluralità nella suprema unità, è motivo di gioia per me il ripensare ancora questo segreto così impenetrabile. Ecco infatti: in certo senso è impossibile che sia lo stesso chi genera e chi è generato, il genitore e la prole, sì che è necessario che altro sia il generante, altro il generato; altro il padre, altro il figlio; ma in certo senso è necessario che colui che genera sia identico a colui che è generato, e il genitore alla prole, sì che è impossibile che il generante sia altra cosa dal generato e il padre dal figlio. E, pur essendo uno diverso dall’altro, sì che è manifesto che sono due, tuttavia costituiscono tale unità e sono talmente identici, che ci sfugge totalmente ciò in cui sono due. Altro è infatti il padre e altro il figlio, sì che, quando dico l’uno e l’altro, sembra che esprima due soggetti; ma è talmente identico ciò che essi sono che non so in che cosa li posso dire due. Sebbene infatti il solo padre sia perfettamente sommo spirito e il solo figlio sia pure tale, tuttavia padre e figlio sono un solo e identico spirito, sì che non sono due spiriti, ma uno solo. E come le singole proprietà di ciascuno non ammettono pluralità, perché non appartengono a tutti e due, così ciò che è comune a entrambi ha una indivisibile unità, sebbene appartenga totalmente a ciascuno.

Come infatti non sono due padri o due figli, ma un solo padre e un solo figlio, poiché le loro proprietà sono distinte, così non sono due spiriti, ma uno solo, sebbene e il padre e il figlio siano ciascuno perfettamente spirito. Sono opposti per le loro reciproche relazioni, sì che l'uno non ha mai ciò che è proprio dell’altro, ma sono concordi nella natura, sì che l’uno ha sempre l’essenza dell’altro. Sono diversi perché l'uno è padre e l’altro figlio, sì che il padre non può mai esser detto figlio 0 viceversa, e sono identici per sostanza, sì che l’essenza del figlio è sempre nel padre e viceversa. L’essenza dei due non è infatti diversi ma identica, non molteplice ma una.

XLIV. IN CHE MODO L’UNO SIA L'ESSENZA DELL'ALTRO.

E perciò, se si dice che l’uno è l’essenza dell’altro, non ci si allontana dalla verità, ma si accentua la suprema unità e semplicità della loro comune natura. Se si dice infatti che il padre è l’essenza del figlio e il figlio l'essenza del padre, l'essenza non va intesa come si intende la sapienza dell’uomo, ossia la sapienza per la quale è sapiente l’uomo che per sé © non può essere sapiente; sì che il figlio sia esistente in virtù del padre e il padre in virtù del figlio, come se l’uno non potesse esistere se non in virtù dell’altro a quel modo in cui l’uomo non può esser sapiente se non in virtù della sapienza. Come infatti la somma sapienza è sempre tale per sé, così la somma essenza è sempre per sé. Ora il padre è perfettamente somma essenza, e tale è pure il figlio. E parimente il padre è per sé perfetto come per sé è perfetto il figlio, così come ognuno è per sé sapienza.

L’essenza e la sapienza del figlio, infatti, non è meno perfetta perché è nata dall’essenza e dalla sapienza del padre; ma sarebbe meno perfetta se non esistesse per sé e non fosse per sé sapienza. Non si oppongono infatti questi due caratteri: che il figlio sussista per sé e che abbia l'essere dal padre. Come infatti il padre ha l'essere e la sapienza e la vita in se stesso, sì che è per il suo essere, e non per altro, ed è sapiente per la sua sapienza, vive per la sua vita: così, generandolo, dà al figlio di avere l'essere e la sapienza e la vita in se stesso, sì che il figlio sussiste, è sapiente e vive in virtù del suo essere, della sua sapienza, della sua vita, e non in virtù di un altro. Altrimenti l'essere del padre non sarebbe identico a quello del figlio e il figlio non sarebbe uguale al padre. È si è visto chiaramente sopra quanto sarebbe falsa questa conseguenza.

E perciò non è contraddittorio che il figlio sussista per sé, e tuttavia proceda dal padre, perché il suo stesso poter per sé sussistere gli deriva dal padre. Se infatti un sapiente insegnasse la sua sapienza a me che prima ne ero privo, non a torto si direbbe che la sua sapienza mi ha fatto sapiente. Ma per quanto la mia sapienza avesse l'essere e l’esser sapienza dalla sua, tuttavia, una volta posta in essere, sarebbe, e sarebbe sapienza per sé. Tanto più dunque il figlio coeterno dell’eterno padre, che ha l’essere dal padre in modo tale da non costituire una seconda essenza, sussiste ed è sapiente e vive per sé. Dunque, la proposizione che il padre è l’essenza del figlio e il figlio del padre non va intesa nel senso che l'uno non possa sussistere per sé, ma solo per l’altro; ma per significare che hanno comune l’unica essenza sommamente semplice si può dire e pensare giustamente che l’uno è identico all’altro, fino al punto di averne la medesima essenza. Per questo motivo, poiché per l’uno e per l’altro aver l'essenza vuol dire essere l'essenza: come l’uno ha l’essenza dell’altro, così è l'essenza dell’altro: è identico cioè l’essere dell'uno e dell’altro.

XLV. È PIÙ ESATTO DIRE: IL FIGLIO È L'ESSENZA DEL PADRE CHE NON VICEVERSA; E SIMILMENTE: IL FIGLIO È LA VIRTÙ, LA SAPIENZA ECC. DEL PADRE.

Sebbene sia vero quello che abbiamo sopra concluso, per il motivo che abbiamo visto, tuttavia è molto più conveniente dire: il figlio è l'essenza del padre che non: il padre è l'essenza del figlio. Poiché infatti il padre non ha l’essere © da altri che da sé, non sarebbe esatto dire che ha l'essenza di uno distinto da sé. Poiché invece il figlio ha l'essenza dal padre, e la stessa essenza che ha il padre, in modo esattissimo si può dire che ha l’essenza del padre. E perciò, poiché l’uno e l’altro hanno l’essenza perché sono per essenza, come è più esatto dire che il figlio ha l'essenza del padre che non dire che il padre ha l’essenza del figlio, così è più conveniente dire: il figlio è l'essenza del padre che dire: il padre è l'essenza del figlio. Questa sola espressione, infatti, con acuta brevità mette in rilievo che il figlio non solo ha la medesima essenza del padre, ma l’ha dal padre.

Sicché la proposizione: « Il figlio è l'essenza del padre » vuol dire: « Il figlio è l’identica essenza che procede dall’essenza del padre »; anzi: dal padre che è essenza. E similmente il figlio è virtù, sapienza o verità, giustizia del padre, e quanto altro conviene all'essenza del sommo spirito.

XLVI. ALCUNE DELLE PROPOSIZIONI DETTE POSSONO ANCHE ESSERE INTESE DIVERSAMENTE.

Alcune delle proposizioni che abbiamo così espresse e intese possono tuttavia assumere, nei medesimi termini, un altro esatto significato. È chiaro infatti che il figlio è un autentico verbo, ossia una perfetta conoscenza e scienza e sapienza della intera sostanza del padre, cioè una conoscenza che intende, conosce, sa e penetra l'essenza del padre.

Non ci si allontana dunque dalla verità se l'affermazione che il figlio è l'intelligenza, la sapienza, la conoscenza o nozione del padre è intesa in questo senso: il figlio intende, penetra, sa e conosce il padre. Il figlio può anche esser detto benissimo verità del padre, non solo nel senso che la verità del padre e del figlio è la stessa, come abbiamo già visto; ma anche nel senso che il figlio non va inteso come una imperfetta imitazione del padre, ma come la piena verità della sostanza paterna, poiché è identico col padre.

XLVII. IL FIGLIO È INTELLIGENZA DELL’INTELLIGENZA E VERITÀ DELLA VERITÀ E COSÌ DEGLI ALTRI ATTRIBUTI.

Ma se la sostanza stessa del padre è intelligenza e scienza e sapienza e verità, se ne conclude logicamente, poiché il figlio è intelligenza e scienza e sapienza e verità della sostanza paterna, che egli è intelligenza dell’intelligenza, scienza della scienza, sapienza della sapienza, verità della verità.

XLVIII. IL PADRE SI INTENDE COME MEMORIA, IL FIGLIO COME INTELLIGENZA. IN CHE MODO IL FIGLIO SIA INTELLIGENZA O SAPIENZA DELLA MEMORIA, E MEMORIA DEL PADRE E DELLA MEMORIA.

Cosa si deve pensare della memoria? Si deve ritenere che il figlio sia intelligenza della memoria, o memoria del padre, o memoria della memoria? In verità, poiché non si può negare che la somma sapienza sia memore di sé , il padre si concepisce nel modo migliore come memoria, e il figlio si concepisce nel modo migliore come verbo, poiché il verbo nasce dalla memoria. E ciò si vede più chiaramente nel nostro spirito. Poiché infatti lo spirito umano non pensa sempre attualmente a sé, mentre è sempre memore di sé, è chiaro che, quando pensa a sé, il suo verbo nasce dalla memoria. Donde si conclude che, se pensasse sempre a sé, sempre il suo verbo nascerebbe dalla memoria. Infatti, pensare a una cosa di cui abbiamo memoria è quanto dirla mentalmente; e il verbo della cosa pensata è lo stesso pensiero che ci si forma secondo la similitudine che si trae dalla memoria.

Di qui ci si può chiaramente render conto che dalla eterna memoria della somma sapienza, che dice sempre se stessa, così come è sempre memore di sé, nasce un verbo a lei coeterno. Come dunque è esatto intendere il verbo come prole, così è giustissimo chiamar memoria colui che genera. Se dunque la prole, che è nata soltanto dal sommo spirito, è prole della memoria di lui, ne consegue che lo stesso sommo spirito è memoria di sé.

Infatti, mentre è memore di sé, non è presente alla sua memoria come una cosa può esser presente a un’altra — per esempio come le cose che sono presenti alla memoria dello spirito umano, le quali non si identificano con la nostra memoria — ma è memore di sé in modo tale da identificarsi con la sua memoria. Ne segue dunque che, come il figlio è l’intelligenza e la sapienza del padre, tale sia anche della memoria del padre. Ora il figlio è pure memore di tutto ciò che sa e intende. Dunque il figlio è memoria del padre e memoria della memoria, cioè memore memoria del padre, che è memoria, così come è sapienza del padre, e sapienza della sapienza, ossia è sapienza sapiente della sapienza del padre. Il figlio è memoria nata dalla memoria e sapienza nata dalla sapienza; il padre invece è memoria e sapienza che non nasce da nessun altro.

XLIX. IL SOMMO SPIRITO AMA SÉ.

Ma ecco, mentre contemplo con gioia le proprietà e la comunione del padre e del figlio, trovo in loro da contemplare con somma gioia il loro mutuo amore. Non sarebbe infatti assurdo negare che il sommo spirito ami sé, come di sé è memore e si conosce, quando anche lo spirito razionale si dimostra capace di amare sé e lui, dal fatto che di sé e di lui può essere memore, sé e lui può conoscere ? Oziosa infatti sarebbe la memoria e l’intelligenza di una cosa, se la cosa stessa non fosse poi amata o riprovata, come esige la ragione. Dunque il sommo spirito ama sé, come di sé è memore si conosce.

L. LO STESSO AMORE PROCEDE DAL PADRE E DAL FIGLIO.

È certo manifesto a chi sia dotato di ragione che il sommo spirito non è memore di sé e si conosce perché si ama, ma si ama perché è memore di sé e si conosce; né potrebbe amarsi se non fosse memore di sé e non si conoscesse. Non si può infatti amare nessuna cosa se non se ne ha memoria o conoscenza, mentre si possono aver presenti molte cose alla memoria e all’intelligenza senza amarle. E dunque manifesto che l’amore del sommo spirito procede dal fatto che egli è memore di sé e si conosce. Ora ‘ se si concepisce il padre come memoria del sommo spirito, e il figlio come intelligenza, è manifesto che l’amore del sommo spirito procede ugualmente dal padre e dal figlio.

LI. IL PADRE E IL FIGLIO CON UGUALE AMORE AMANO SÉ E L’ALTRO

Ma se il sommo spirito si ama, senza dubbio il padre ama sé, il figlio ama sé, e ognuno ama l’altro, poiché il padre solo”? è sommo spirito e il figlio solo è sommo spirito, ed entrambi sono insieme l’unico sommo spirito, e poiché ognuno è memore di sé e dell’altro e conosce sé e l’altro.

E poiché è lo stesso colui che ama ed è amato nel padre e nel figlio, è necessario che con uguale amore ognuno dei due ami sé e l’altro.

LII. L’AMORE È GRANDE QUANTO IL SOMMO SPIRITO.

Quanto è grande dunque questo amore del sommo spirito, comune al padre e al figlio? Se si ama tanto quanto è memore di sé e si conosce, e tanto è memore di sé e si conosce quanto è grande la sua essenza - e non può essere altrimenti — certo il suo amore è grande quanto è grande lo stesso sommo spirito.

LIII. L'AMORE È IDENTICO AL SOMMO SPIRITO, E TUTTAVIA È UN SOLO SPIRITO COL PADRE E COL FIGLIO.

Ma che cosa può essere pari al sommo spirito se non lo stesso sommo spirito ? Questo amore è dunque il sommo spirito. E poi, se non ci fosse nessuna creatura, cioè se esistesse solo il sommo spirito, padre e figlio, nondimeno il padre e il figlio amerebbero sé e si amerebbero reciprocamente. Ne segue dunque che questo amore è identico col padre e col figlio ed è la somma essenza. E poiché di somme essenze non ce ne può essere più di una, è assolutamente necessario che il padre, il figlio e l’amore di entrambi siano l’unica somma essenza. Questo amore è dunque somma sapienza, somma verità, sommo bene e tutto ciò che può dirsi dell’essenza del sommo spirito.

LIV. L’AMORE PROCEDE INTERAMENTE DAL PADRE E INTERAMENTE DAL FIGLIO, E TUTTAVIA VI E UN UNICO AMORE.

Bisogna esaminare diligentemente se vi siano due amori, uno che procede dal padre e l’altro dal figlio; o se ve ne sia uno solo che non procede interamente da uno, ma in parte dal padre e in parte dal figlio; o se non ve ne sono né due né uno che procede in parte dall'uno e in parte dall’altro, ma uno solo che procede interamente da ciascuno dei due ed è il medesimo che procede da tutti e due insieme.

Ma la soluzione di questo dubbio si ricava con certezza dalla considerazione che l’amore non procede da ciò per cui padre e figlio sono due, ma da ciò in cui sono uno. Padre e figlio infatti emettono parimente da sé un bene così grande non dalle loro relazioni, che sono diverse — poiché altra è la relazione di paternità, altra quella di filiazione — ma dalla loro essenza che non ammette pluralità. Come dunque il padre per sé solo è sommo spirito, e tale è pure il figlio per sé solo, e padre e figlio insieme non sono due sommi spiriti ma uno solo, così dal padre per sé solo emana tutto l’amore del sommo spirito, e tutto emana dal figlio per sé solo, e dal padre e dal figlio insieme emanano non due amori ma emana interamente l’unico amore.

LV. L’AMORE NON È FIGLIO DEL PADRE E DEL FIGLIO.

E allora? Se questo amore ha l’essere parimente dal padre e dal figlio ed è simile a loro senza alcuna dissomiglianza, anzi è addirittura identico a essi, dobbiamo forse ritenere che sia loro figlio o prole?

Ma, come il figlio, appena lo si consideri, si dimostra con piena evidenza prole di colui dal quale deriva, recando in sé l’immediata immagine del padre, così lamore dimostra apertamente di non essere prole, perché, sebbene si intenda che procede dal padre e dal figlio, non mostra subito a chi lo contempla una similitudine così evidente di colui dal quale procede, anche se una ulteriore considerazione insegna che egli è affatto identico al padre ed al figlio. Inoltre, se fosse loro prole, o uno di loro sarebbe il padre e l’altro la madre, o entrambi sarebbero padre o madre; il che si mostra contrario alla verità. Poiché infatti non procede altrimenti dal padre che dal figlio, la verità non permette che la relazione del padre e del figlio con lui sia espressa con un vocabolo diverso. Dunque non è vero che uno sia padre e l’altro madre. Ora nessuna natura ci offre esempio di due soggetti che abbiano ciascuno ugualmente un perfetto e identico rapporto con un terzo e ne siano uno padre e uno madre. Dunque non sono entrambi, il padre e il figlio, padre o madre dell'amore che emana da loro. Non si accorda dunque affatto con la verità il dire che il loro amore sia loro figlio o prole.

LVI. SOLO IL PADRE È GENITORE INGENITO, SOLO IL FIGLIO È & z, GENERATO, SOLO L'AMORE NON È NÉ GENERATO NÉ INGENITO.

Si vede tuttavia che l’amore non può esser detto, secondo l’uso comune dei termini, né ingenito né propriamente generato, così come si dice del verbo. Siamo soliti dire, infatti, che una cosa è generata da quella dalla quale deriva, come per esempio quando diciamo che il calore o lo splendore è generato dal fuoco o che un effetto è generato dalla sua causa. in questo senso dunque l’amore che proviene dal sommo spirito non può esser detto ingenito. Ma non può dirsi generato così propriamente come il verbo, perché il verbo è prole e figlio nel senso più vero, mentre è manifesto che l’amore non è affatto figlio o prole. Dunque può, anzi deve esser detto genitore e ingenito solo colui dal quale deriva il verbo, poiché egli solo è padre e genera e non deriva in nessun modo da un altro. E solo il verbo può esser detto generato, perché egli solo è figlio e prole. L'amore di entrambi non è né generato né ingenito, poiché non è figlio né prole, e tuttavia procede da altro.

LVII. L’AMORE È INCREATO E CREATORE COME IL PADRE E IL FIGLIO, E TUTTAVIA INSIEME CON ESSI NON COSTITUISCE TRE INCREATI E CREATORI, MA UNO SOLO. EGLI PUÒ ESSER DETTO SPIRITO DEL PADRE E DEL FIGLIO.

Ma poiché l’amore per sé solo è somma essenza, come il padre e il figlio, e tuttavia padre, figlio e il loro amore non costituiscono più essenze, ma un’unica essenza, la quale sola, increata, non per altro che per virtù sua ha creato tutte le cose: è necessario che, come il padre per sé solo e il figlio per sé solo sono ciascuno increato e creatore, così anche l’amore per sé solo sia increato e creatore, e tuttavia tutti e tre non siano tre increati e creatori, ma uno solo. Nessuno dunque ha fatto o creato o generato il padre. Il padre solo non crea, ma genera il figlio. Il padre e il figlio ugualmente non creano né generano, ma, se così può dirsi, spirano in certo modo il loro amore. Sebbene infatti l’essenza sommamente immutabile non spiri nel nostro modo, tuttavia non c’è forse modo più adatto per significare che essa emana da sé il suo amore — quell’amore che procede da lei non allontanandosene, ma traendo da lei il suo essere — che quello di dire che essa lo spira.

E se si può dir questo, come il verbo della somma essenza è il figlio, così l’amore può esser chiamato in modo assai conveniente suo spirito. Sicché, essendo egli essenzialmente spirito, come il padre e il figlio, questi non sono lo spirito di qualcuno — poiché il padre non procede da nessun altro e il figlio non nasce dal padre per una spirazione — mentre l’amore è spirito del padre e del figlio, poiché procede da entrambi, i quali lo spirano ciascuno in un suo ineffabile modo. L’amore inoltre, poiché è comunione del padre e del figlio, può pure, non senza ragione, assumere come proprio un nome che è comune al padre e al figlio, se gli manca un nome proprio. E se così avviene, cioè che l’amore sia designato col nome proprio di spirifo, nome che significa ugualmente la sostanza del padre e del figlio, un valido e non inutile motivo di questo è il ribadire con ciò che egli è identico al padre e al figlio, sebbene abbia l’essere da loro.

LVIII. COME IL FIGLIO È L'ESSENZA E LA SAPIENZA DEL PADRE, NEL SENSO CHE HA LA MEDESIMA ESSENZA E SAPIENZA DEL PADRE, COSÌ LO SPIRITO È L'ESSENZA E LA SAPIENZA E ALTRI SIMILI ATTRIBUTI DEL PADRE E DEL FIGLIO.

Come il figlio è la sostanza e la sapienza e la virtù del padre, nel senso che ha la medesima essenza e sapienza e virtù del padre, così lo spirito di entrambi si può concepire come essenza, sapienza e virtù del padre e del figlio, perché ha questi attributi del tutto identici con loro.

LIX. IL PADRE, IL FIGLIO E LO SPIRITO DI ENTRAMBI SONO UGUALI FRA LORO.

Dà gioia il considerare come il padre, il figlio e il loro spirito siano fra loro in così perfetta uguaglianza che nessuno di loro supera l’altro. Oltre a ciò, infatti, che ognuno di loro è in modo così perfetto la somma essenza, da costituire tutti e tre insieme una sola somma essenza che non può ammettere altra maggiore o minore né senza di lei né fuori di lei — si può dimostrar questo anche per ciascuno di loro singolarmente. Il padre infatti è tutto intero nel figlio e nel loro comune spirito, e il figlio è nel padre e nello spirito, e lo spirito è nel padre e nel figlio, poiché la memoria della somma essenza è tutta nella sua intelligenza e nell'amore, l’intelligenza è tutta nella memoria e nell'amore, e l’amore nella memoria e nell’intelligenza. Il sommo spirito infatti conosce tutta intera la sua memoria, e lama; è memore di tutta la sua intelligenza, e lama; è memore di tutto il suo amore e lo conosce interamente. Ora, come memoria si concepisce il padre, come intelligenza il figlio e come amore il loro spirito. Dunque il padre, il figlio e il loro spirito si comprendono con tale uguaglianza e sono così uguali fra loro, che nessuno di loro supera l’altro o può essere senza l’altro.

LX: NESSUNO DEI TRE HA BISOGNO DELL'ALTRO PER ESSER MEMORE, PER CONOSCERE, PER AMARE, POICHÉ OGNUNO DEI TRE È MEMORIA, INTELLIGENZA, AMORE, ED È TUTTO CIÒ CHE APPARTIENE NECESSARIAMENTE ALLA SOMMA ESSENZA.

Ma penso che occorra tenere ben presente, senza trascurarla, una verità che si affaccia alla mia considerazione.

Quando si concepisce il padre come memoria, il figlio come intelligenza, lo spirito come amore, non bisogna intendere questo in modo tale che il padre abbia bisogno del figlio o del loro comune spirito, il figlio abbia bisogno del padre o dello spirito e lo spirito del padre e del figlio; quasi che il padre per sé potesse essere soltanto memore, non potesse conoscere se non mediante il figlio e non potesse amare se non mediante lo spirito suo e del figlio; e il figlio per sé potesse solo conoscere, e fosse memore mediante il padre e amasse mediante lo spirito; e lo spirito per sé potesse soltanto amare, il padre fosse la sua memoria e il figlio la sua intelligenza: infatti, poiché ognuno dei tre è somma essenza e somma sapienza, sì da essere per sé memore e intelligente e amante, è necessario che u Y nessuno dei tre abbia bisogno dell’altro per essere memore o per intendere o per amare.

Ognuno infatti è essenzialmente memoria, intelligenza e amore e tutto ciò che appartiene necessariamente alla somma essenza.

LXI. E TUTTAVIA PADRE, FIGLIO E IL LORO SPIRITO NON SONO TRE, MA UNO SOLO.

Qui mi si presenta un problema. Se il padre è tanto intelligenza e amore quanto è memoria, e il figlio è memoria e amore quanto è intelligenza, e lo spirito è memoria e intelligenza non meno che amore: come mai il padre non è figlio e spirito, e perché il figlio non è padre e spirito, e lo spirito non è padre e figlio ? Dicemmo infatti che il padre è memoria, il figlio intelligenza, e lo spirito di entrambi amore.

Il problema non è difficile da risolvere se consideriamo ciò che già abbiamo scoperto con la ragione. Il padre infatti non è figlio e spirito di un altro, sebbene sia intelligenza e amore, perché non è intelligenza generata né amore procedente da qualcuno; ma tutto quello che è, lo è soltanto come generante e come colui da cui procede un altro. Così pure il figlio non è padre o spirito di un altro, sebbene sia per sé memore e per sé ami, perché non è memoria generante né amore che proceda da altro, come è invece il suo spirito; ma è tutto quello che è, essendo generato, ed è colui dal quale procede lo spirito. In pari modo, l’esser compreso nella sua memoria e nella sua intelligenza non fa sì che lo spirito sia padre e figlio, poiché non è memoria generante né intelligenza generata, ma è tutto quello che è soltanto in quanto procede. Che cosa dunque ci impedisce di concludere che nella somma essenza uno solo è il padre, uno solo il figlio, uno solo lo spirito, e non tre padri, o figli o spiriti?

LXII. SEMBRA COSÌ CHE NASCANO PIÙ FIGLI.

Ma forse a questa conclusione contraddice quello che mi par di vedere. Non deve infatti esser dubbio che il padre, il figlio e il loro spirito esprimono ”3 ciascuno se stesso e gli altri due, così come conoscono ognuno se stesso e gli altri due. Ora, se è così, come mai non ci sono nella somma essenza tanti verbi quanti sono coloro che esprimono e coloro che sono espressi? Se infatti diversi uomini dicono col pensiero una stessa cosa, pare che debbano esserci tanti concetti quanti sono i soggetti che pensano, poiché nel pensiero di ciascuno vi è l’espressione di ciò che pensa. Così pure, se un uomo pensa più cose, nella sua mente vi sono tanti concetti quante sono le cose pensate.

Ma nel pensiero dell’uomo, quando pensa qualcosa che sia fuori della sua mente, il concetto della cosa pensata non nasce dalla cosa stessa, che è lontana dall’atto del pensiero, ma da una similitudine o immagine che è nella memoria di colui che pensa o che, dalla cosa presente, è attratta nella mente mediante i sensi”. Nella somma essenza, invece, il padre, il figlio e lo spirito sono sempre così presenti a sé (ognuno infatti, come abbiamo visto, è negli altri non meno che in se stesso) che, quando uno esprime l'altro, colui che è espresso genera il suo verbo allo stesso modo di quando è espresso da sé. Come si può dire allora che il figlio, o lo spirito di lui e del padre, non genera nulla, se ciascuno di loro genera la sua espressione o verbo quando è espresso da sé o dall’altro? Ma, in base alle considerazioni fatte sopra è necessario che la somma sostanza generi tanti figli quanti sono i verbi che da lei possono nascere, ed emetta altrettanti spiriti. Secondo questo ragionamento, dunque, sembra che in lei ci siano non solo molti padri e figli e spiriti che procedono, ma anche altre necessarie conseguenze.

LXIII. NELLA SOMMA ESSENZA DA UNO DERIVA UNO SOLO.

Al contrario, il padre, il figlio e il loro spirito, la cui esistenza è ormai certissima, non sono tre soggetti che dicono, sebbene ciascuno dica, né diverse sono le cose dette quando ciascuno dice sé e gli altri. Come infatti appartiene alla somma essenza il sapere e il conoscere, così è naturale all’eterna e incommutabile scienza e intelligenza l’intuire come presente ciò che essa sa e conosce. Ora per il sommo spirito questo dire non è altro che l’intuire pensando, come la parola della nostra mente non è altro che la visione di colui che pensa. Ma gli argomenti già considerati hanno dimostrato con assoluta evidenza che tutto ciò che appartiene necessariamente alla somma natura compete, e nel modo più perfetto, al padre, al figlio e al loro spirito singolarmente presi; e tuttavia questi attributi, se si dicono di tutti e tre insieme, non ammettono pluralità. Poiché dunque è risultato che, come appartengono alla somma essenza la conoscenza e l'intelligenza, e il suo sapere e il suo conoscere non è altro che un dire, ossia un intuire come sempre presente ciò che essa sa e conosce: è necessario che — come il padre, il figlio e il loro spirito sono ciascuno conoscente e intelligente, e tuttavia i tre insieme non sono diversi soggetti conoscenti e intelligenti, ma vi è un solo conoscente e un solo intelligente — così ognuno si esprima dicendo, e tuttavia non siano insieme tre che si esprimono dicendo, ma uno solo sia colui che dice. E un’altra cosa si può chiaramente conoscere: quando questi tre sono detti da sé o da un altro di loro, non vi è pluralità in ciò che è detto. Che cosa è detto infatti se non la loro essenza ? E se questa è una sola, una sola è la cosa detta. Dunque, se uno solo è chi dice e una cosa sola è ciò che è detto — una è infatti la sapienza che in loro si esprime e una è l'essenza che è espressa — ne segue che non vi sono diversi verbi, ma uno solo. Sebbene infatti ciascuno dica se stesso e tutti gli altri, è tuttavia impossibile che nella somma essenza vi sia altro verbo oltre a quello di cui si è dimostrato che nasce da colui di cui è verbo così da poterne esser detto immagine e da esserne veramente figlio.

In questa conclusione vedo una realtà mirabile e inesplicabile. E cioè che, mentre è manifesto che ciascuno, ossia il padre, il figlio e lo spirito del padre e del figlio, dicono ugualmente ciascuno sé e gli altri due, e con un solo verbo; tuttavia il verbo non si può affatto dire verbo di tutti e tre, ma solo di uno di loro. È risultato infatti che il verbo è immagine e figlio di colui del quale è verbo; ed è chiaro che non può esser detto immagine e figlio né di sé né dello spirito che da lui procede. Non nasce infatti da sé né dallo spirito che da lui procede, né col suo essere imita sé o colui che da lui procede. Non imita sé né trae da sé la somiglianza nell'essere, perché imitazione e somiglianza non ci sono in uno solo, ma in più enti. Non imita lo spirito né è similitudine di lui, perché non ha da lui l’essere, ma viceversa. Ne risulta dunque che esiste soltanto il verbo di quello solo dal quale nascendo ha l'essere e di cui è piena similitudine. Vi è dunque nella somma essenza un solo padre, non tre padri; un solo figlio, non più figli; un solo spirito che procede, non diversi spiriti che procedono. Essi sono tre perché il padre non è mai figlio o spirito procedente da essi, né il figlio è mai padre o spirito procedente, né lo spirito del padre e del figlio è mai padre e figlio, e ognuno è talmente perfetto da non aver bisogno di altri; ma ciò che essi sono è talmente una cosa sola da non poter essere predicato al plurale di ciascuno né da poter essere predicato al plurale dei tre insieme. E sebbene ciascuno dica parimente sé e gli altri, non vi sono tuttavia tre verbi, ma uno solo, e il verbo non è verbo di ciascuno o di tutti e tre insieme, ma di uno solo.

LXIV. QUESTO MISTERO, SEBBENE SIA INESPLICABILE, DEVE TUTTAVIA ESSER CREDUTO.

Il mistero di questa realtà così sublime mi si presenta come trascendente ogni capacità di penetrazione dell’umano intelletto, e perciò ritengo si debba porre un limite al tentativo di spiegare come sia possibile. Stimo infatti che a chi indaga una realtà incomprensibile debba bastare il pervenire con la ragione a conoscerne con tutta certezza l’esistenza, anche se non può penetrarne con l’intelletto il come, né bisogna prestare minor certezza di fede alle verità che sono asserite con argomenti necessari, senza che altre ragioni vi si oppongano, anche se non riusciamo a spiegarle per l’incomprensibile profondità della loro natura. E cosa vi è di più incomprensibile e di più ineffabile di ciò che è superiore a ogni cosa? Perciò, se quello che abbiamo discusso finora della somma essenza è stato asserito con argomenti necessari, non ammette nessun ondeggiamento nella solidità della sua certezza, sebbene non possa essere penetrato dall’intelletto in modo tale da poter essere spiegato con parole. Se infatti la considerazione che abbiamo fatta sopra ci fa capire che è incomprensibile il modo in cui la somma sapienza conosce le creature, delle quali occorre che sappiamo tante cose: chi potrebbe spiegare come essa conosca o dica se stessa, ossia quella realtà della quale l’uomo non sa nulla o quasi nulla ? Se dunque nel dire se stessa la somma sapienza genera come padre ed è generata come figlio « chi narrerà la sua generazione » (Isaia, LIII, 8)?

LXV. È TUTTAVIA SONO STATE ARGOMENTATE COSE VERE DI QUESTA INEFFABILE REALTÀ

Ma allora, se si tratta, anzi poiché si tratta di una realtà ineffabile, come potrà reggersi tutto quello che abbiamo argomentato dei rapporti che sono in lei fra padre, figlio e spirito che da essi procede? Se infatti lo abbiamo concluso con ragioni vere, come potremo dirla ineffabile? E se è ineffabile, in che modo può essere così come abbiamo detto, argomentando, che è? O forse si può spiegare fino a un certo punto ciò che essa è — e perciò nulla impedisce che sia vero ciò che è stato concluso — ma poiché non si può comprenderla fino in fondo, per questo è ineffabile ? Ma cosa potremmo rispondere all’obiezione fondata su quello che sopra è risultato in questo stesso discorso, e cioè che la somma essenza È così trascendente ogni altra natura che, quando si usano per designarla termini comuni ad altre nature, il significato di questi termini non è affatto comune? E che significato ho dato tutte le parole che ho pensato, se non quello comune e usuale? Se dunque il significato usuale delle parole le è estraneo, tutto quello che ho concluso non si applica a lei. E come posso dire di aver trovato qualche verità intorno alla somma essenza, se tutto quello che ho trovato è immensamente lontano da lei ?

E allora? Forse abbiamo in certo modo scoperto qualcosa di quella realtà incomprensibile, e in certo modo 7” non abbiamo visto nulla? Spesso infatti diciamo molte cose che non esprimiamo così come sono, ma significhiamo mediante un’altra realtà ciò che non vogliamo o non riusciamo a esprimere, come avviene quando parliamo per enigmi. E spesso vediamo una cosa non | propriamente, come è in se stessa, ma attraverso una sua similitudine o immagine, come quando guardiamo il volto di qualcuno in uno specchio. E quando è così, diciamo e non diciamo, vediamo e non vediamo una cosa. La diciamo e la vediamo mediante un’altra; non la diciamo e non la vediamo in ciò che le è proprio. In questo modo nulla impedisce che sia vero ciò che abbiamo argomentato finora della somma natura, e che tuttavia essa rimanga ineffabile, se non riteniamo di averla espressa in ciò che è proprio della sua essenza, ma di averla in qualche modo designata mediante un’altra realtà, Tutti i nomi, infatti, che si possono dire di quella natura non ce la mostrano in ciò che le è proprio, quanto piuttosto ce la indicano mediante qualche similitudine. Invero, quando penso il significato di quei nomi, concepisco più facilmente quel che vedo nelle creature che non quello di cui so che trascende ogni umano intelletto, Col loro significato, infatti, quei nomi rappresentano nella mia mente molto meno, anzi rappresentano qualcosa di ben diverso da ciò che il mio spirito si sforza di intendere attraverso quel pallido significato ??, Né il termine sapienza, infatti, basta a rappresentarmi ciò per cui sono state create dal nulla e sono conservate tutte le cose, né il termine essenza è capace di esprimere ciò che per la sua singolare altezza è sopra ogni cosa e per il suo carattere proprio è assolutamente trascendente ogni cosa. Così dunque quella natura è ineffabile, poiché le parole con le quali la designamo non sono assolutamente capaci di esprimerla come è in se stessa, e tuttavia non è falso ciò che può esserle attribuito con una conoscenza mediata, quasi per enigma, sotto la guida della ragione.

LXVI. Lo SPIRITO RAZIONALE È QUELLO ATTRAVERSO IL QUALE PIÙ CI SI AVVICINA A CONOSCERE LA SOMMA ESSENZA.

Poiché dunque abbiamo visto che non possiamo percepire nulla di questa natura in ciò che le è proprio, ma possiamo conoscerla solo mediante altre, è certo che ci avvicineremo di più a conoscerla mediante ciò che più le si approssima per somiglianza. Infatti ciò che, fra le creature, è più simile a lei, è necessariamente migliore per natura. E questo, per la sua maggiore somiglianza, aiuta di più ad avvicinare la mente che indaga alla somma verità e meglio le insegna, attraverso una più eccellente essenza creata, che cosa debba attribuire all'essenza creatrice. Certo, dunque, l'essenza creatrice si conosce tanto più profondamente quanto più la si indaga attraverso una creatura a lei più vicina. Le ragioni considerate sopra, infatti, non lasciano dubbi su questo: che ogni ente, in quanto è, in tanto è simile alla somma essenza. È chiaro dunque che, come la mente razionale è la sola creatura che possa assurgere a investigare la somma essenza, così è la sola mediante la quale essa possa progredire a meglio scoprirla. Abbiamo già visto infatti che la mente razionale è la più vicina alla somma essenza per similitudine di natura. È dunque evidente che, quanto più intensamente la mente razionale attende a conoscere se stessa, tanto più efficacemente ascende a conoscere la somma essenza; e quanto più trascura di guardare in se stessa, tanto più si allontana dalla contemplazione di lei.

LXVII. LA MENTE È SPECCHIO E IMMAGINE DELLA SOMMA ESSENZA.

Giustamente dunque si può dire che la mente umana è a se stessa come specchio, nel quale può guardare riflessa, per dir così, l’immagine di quella realtà che non può vedere «faccia a faccia ». Se infatti la mente sola, fra tutte le creature, è memore di sé, si conosce e si ama, non vedo perché debba negarsi che in lei è una vera immagine di quella essenza che sussiste in una ineffabile trinità per la memoria, l’intelligenza e l'amore di sé. O piuttosto si mostra ancora più veramente immagine di quella, perché di quella può essere memore, quella può conoscere e amare. L’aspetto, infatti, nel quale è più grande e più simile alla somma essenza, è quello in cui si dà a conoscere come immagine più vera di lei. Ora non si può pensare sia dato naturalmente alla creatura razionale qualcosa di più importante e di più simile alla somma sapienza della capacità di essere memore, di conoscere e di amare la realtà migliore e più grande di tutte. Non vi è dunque nessun’altra facoltà innata a una creatura che rechi in sé come questa l’immagine del creatore.

LXVIII. LA CREATURA RAZIONALE È FATTA PER AMARE LA SOMMA ESSENZA.

Ne segue dunque che di nulla la creatura razionale deve tanto curarsi quanto di esprimere con una attività volontaria questa immagine che le è impressa con le sue potenze naturali. Non solo, infatti, è debitrice al creatore del suo essere; ma proprio perché il suo più alto potere è quello di aver presente, conoscere e amare il sommo bene, si dimostra che questo è il suo supremo dovere. Chi potrebbe negare infatti che si deve volere tanto più fortemente ciò che di meglio è in nostro potere? E, infine, per la natura razionale proprio questo vuol dire esser razionale: poter discernere il giusto dall’ingiusto, il vero dal non vero, il bene dal non bene, il bene maggiore dal minore. Ora questo potere le sarebbe affatto inutile e superfluo se non amasse o riprovasse ciò che è oggetto del giudizio che ha pronunciato discernendo con verità. E di qui risulta evidentemente che ogni soggetto razionale è fatto per amare o respingere con maggiore o minor forza ciò che con ragione e discernimento giudica più o meno buono o non buono. Nulla dunque è più chiaro di questo: che la creatura razionale è fatta per amare la somma essenza sopra ogni altro bene, perché questa è il sommo bene; anzi è fatta per non amare se non questa, 0 le altre cose per questa, poiché la somma essenza è buona per sé, e le altre cose non sono buone se non per virtù di lei. Ora non potrebbe amarla se non l’avesse presente allo spirito e non si curasse di conoscerla. È chiaro dunque che la creatura razionale deve dedicare tutto il suo potere e il suo volere ad aver presente e conoscere e amare il sommo bene, che è ciò per cui riconosce di avere il suo essere.

LXIX. L’ANIMA CHE AMA SEMPRE LA SOMMA ESSENZA AVRÀ ANCHE LA BEATITUDINE.

Non è dubbio che l’anima umana sia una creatura razionale; quindi è necessario che essa sia stata fatta per amare la somma essenza. Sarà dunque fatta o per amarla senza fine, o per amarla in modo tale da perdere a un certo momento questo amore, spontaneamente o per forza. Ma non è lecito pensare che la somma sapienza abbia destinato l’anima umana a disprezzare a un certo momento un bene così grande o a perderlo per forza mentre vorrebbe tenerlo. Resta dunque, per esclusione, che sia fatta per amare senza fine la somma essenza.

Ora non può far questo se non vive sempre. È dunque fatta per vivere sempre, se vuol sempre fare ciò a cui è destinata. Sarebbe poi troppo contrastante col sommo bene e col creatore sommamente sapiente e onnipotente il far non-essere quella creatura che ha creato perché lo ami, finché lo ama veramente; il togliere, o permettere che sia tolto a una creatura che lo ama quell’essere che spontaneamente le ha dato, quando ancora non amava, perché amasse sempre ; tanto più che non si può dubitare che egli non ami ogni realtà che veramente lo ami. Perciò è manifesto che non sarà mai tolta la vita all'anima umana, se cercherà sempre di amare la somma vita.

Ma come vivrà? Che cosa vale infatti una lunga vita se non è al riparo dall'assalto del dolore ? Chi, infatti, mentre vive, è sottoposto al dolore o alla paura del dolore, o s’inganna per una falsa sicurezza, non vive forse miseramente? Se invece uno è libero da queste cose, vive beatamente. Ora sarebbe del tutto assurdo che una natura vivesse sempre miseramente amando sempre colui che è sommamente buono e onnipotente. È chiaro dunque che l’anima umana è tale che, se si mantiene fedele a ciò per cui è fatta, vivrà un giorno beatamente, veramente sicura dalla morte e da ogni altra molestia.

LXX. LA SOMMA ESSENZA DONA SÉ COME PREMIO A CHI L’AMA VERAMENTE.

Infine, non può essere che colui che è giustissimo e potentissimo non ricambi chi persevera nell’amarlo, mentre gli ha dato l'essere perché potesse amarlo, quando ancora non l’amava. Se infatti non ricambiasse, colui che è sommamente giusto non farebbe differenza fra chi ama e chi disprezza ciò che deve amare sopra ogni cosa, e non amerebbe chi lo ama; o non gioverebbe a nulla l'essere amati da lui. Tutte affermazioni in contrasto con la natura di lui. Egli ricambia dunque chi persevera nell’amarlo.

Ma con che cosa lo ricambia? Se ha dato al nulla l’essere razionale, perché potesse amare, che cosa darà a chi lo ama, se non cessa di amarlo ? Se è così grande ciò che serve all’amore, come sarà la ricompensa dell’amore ? Se tale è ciò che sostiene l’amore, quale sarà il premio dell’amore ? Se, infatti, la creatura razionale, che sarebbe priva di significato senza questo amore, è tanto superiore alle altre creature, nulla può essere premio adeguato a questo amore se non ciò che è superiore a ogni natura. È invero il bene stesso che esige di essere così amato quello che costringe l’amante a desiderarlo. Chi infatti può amare la giustizia, la verità la beatitudine, l'immortalità, senza desiderare di goderne? Che cosa dunque ricambierà il sommo bene a chi lo ama e lo desidera, se non se stesso ? Qualunque altra cosa gli desse, infatti, non sarebbe un ricambio adeguato, perché non ricompenserebbe l’amore, non consolerebbe l'amante, non sazierebbe il desiderio. Ché, se volesse essere amato e desiderato per donare in cambio qualcosa di diverso da sé, non vorrebbe essere amato e desiderato per sé, ma per altro; e così non vorrebbe esser amato, ma vorrebbe che un altro fosse amato: il che è impensabile. Nulla dunque di più vero di questo: che ogni anima razionale, se, come deve, cerca di desiderare, amandola, la somma beatitudine, la possiederà un giorno per goderne. Sicché ciò che vede quasi « in uno specchio e confusamente » vedrà allora « faccia a faccia» (I. Cor. , XIII, 12). E sarebbe stolto dubitare se ne godrà senza fine, poiché, godendone, non potrà essere tormentata dal timore, né ingannata da una sicurezza fallace, né, avendola ormai sperimentata, potrà smettere di amarla; né la beatitudine abbandonerà chi lama, né vi sarà qualcosa di più potente, capace di separarle contro la loro volontà. Perciò ogni anima che abbia cominciato una volta a godere della somma beatitudine sarà eternamente beata.

LXXI. L’ANIMA CHE DISPREZZA IL SOMMO BENE SARÀ ETERNAMENTE INFELICE.

Di qui si ricava la conseguenza che all’anima che disprezza l’amore del sommo bene toccherà una eterna infelicità. Se infatti si dicesse che, per un tale disprezzo, sarebbe punita più giustamente con la perdita dell'essere stesso o della vita, perché non ha perseguito il fine per cui era stata creata, la ragione non ammetterebbe che, dopo tanta colpa, subisse come pena l’essere ciò che era prima della colpa. Prima di essere, infatti, non poteva né aver colpa né sentir pena. Se dunque l’anima che disprezza il bene per il quale è stata creata, morisse così da non sentir più nulla o da non esser più nulla, sarebbe nella medesima condizione quando è nella massima colpa e quando è senza colpa; e la giustizia sommamente sapiente non farebbe differenza fra chi non può fare alcun male e non vuole alcun bene, e chi può fare il più gran bene e vuole il più gran male. Ora si vede bene quanto ciò sia insostenibile.

Nulla è dunque più logico e nulla più degno di fede di questo: che l’anima dell’uomo è così fatta che, se trascura di amare la somma essenza, avrà una eterna infelicità, Sicché, come, se ama, godrà di un premio eterno, così se disprezza il sommo bene, patirà una eterna pena. E come, nel primo caso, sentirà una soddisfazione immutabile, così, nel secondo caso, soffrirà di una inconsolabile indigenza.

LXXII. OGNI ANIMA UMANA È IMMORTALE.

Ma non sarebbe una necessaria conclusione che l’anima che ama il sommo bene sarà eternamente beata e quella che lo disprezza eternamente misera, se l’anima fosse mortale. O ami o disprezzi, dunque, ciò che è creata per amare, è necessario che essa sia immortale. E se vi sono anime razionali che non amano né disprezzano, come sembrano quelle degli infanti, cosa si deve pensare di esse ? Sono mortali o immortali ? Ma senza dubbio tutte le anime umane sono della medesima natura. Quindi, poiché è risultato che alcune sono immortali, è necessario che ogni anima umana sia immortale.

LXXIII, L'ANIMA O SARÀ SEMPRE INFELICE 0 UN GIORNO SARÀ VERAMENTE BEATA.

Ora, poiché ogni vivente o non sarà mai veramente al riparo da ogni dolore o finalmente raggiungerà questo stato, è necessario che ogni anima umana o sia sempre infelice o sia un giorno veramente beata.

LXXIV. NESSUN’ANIMA È PRIVATA INGIUSTAMENTE DEL SOMMO BENE, E AD ESSO BISOGNA TENDERE CON TUTTE LE FORZE.

Ritengo sia difficilissimo o addirittura impossibile per un mortale arrivare a capire, argomentando, quali anime vadano giudicate così amanti di colui che sono fatte per amare da meritare un giorno di goderne, e quali così sprezzanti di lui da meritare di esserne prive per sempre; e capire come mai e per quali meriti quelle che non appaiono né amanti né sprezzanti siano destinate all’eterna beatitudine o all’eterna infelicità.

Ma si deve ritenere con assoluta certezza che nessuna sarà privata ingiustamente di quel bene per il quale è stata creata da un creatore sommamente giusto e buono; e perciò ogni uomo deve tendere con tutto il cuore, tutta l’anima, tutto lo spirito a quel bene, amandolo e desiderandolo.

LXXV. SI DEVE SPERARE NELLA SOMMA ESSENZA.

Ma l’anima umana non potrebbe esercitarsi in questa tensione se disperasse di pervenire a ciò verso cui tende. Perciò, quanto le è utile l'impegno nel tendere al sommo bene, altrettanto le è necessaria la speranza di raggiungerio.

LXXVI. SI DEVE CREDERE IN LEI.

Ora l’anima umana non può amare né sperare ciò che non crede. È dunque necessario per l’anima umana credere nella somma essenza e in tutto ciò senza cui la somma essenza non potrebbe essere amata, affinché, credendo, tenda a lei. E penso che questo possa essere significato esattamente e più brevemente dicendo, in luogo di «tendere credendo alla somma essenza »: «credere nella somma essenza». Se uno infatti dice: « Credo in lei» fa capire quanto basta di tendere alla somma essenza con la fede che professa e di credere tutto ciò che è connesso con questo tendere. Non crede infatti veramente in lei né colui che crede ciò che non importa alla tensione verso di lei, né colui che da quello che crede non è spinto a tendere verso di lei. E forse si può dire indifferentemente: credere in lei e credere a lei, come si possono assumere nel medesimo significato le espressioni: tendere credendo in lei e a lei. Senonché, tendendo a lei, a lei perviene, non resta fuori di lei, ma permane in lei; e questo si esprime più chiaramente e famigliarmente dicendo che bisogna tendere in lei, che non a lei. E per questo motivo ritengo sia più esatto dire, che si deve credere in lei piuttosto che a lei.

LXXVII. SI DEVE CREDERE UGUALMENTE NEL PADRE, NEL FIGLIO E NEL LORO SPIRITO: IN CIASCUNO E IN LORO TRE INSIEME.

Si deve dunque credere parimente nel padre, nel figlio e nel loro spirito: in ciascuno di loro e in loro tre insieme, poiché il padre per sé è la somma essenza, e così pure il figlio per sé e lo spirito per sé; e insieme padre, figlio e il loro spirito costituiscono la identica somma essenza, nella quale sola ogni uomo deve credere, poiché è è l’unico fine al quale deve tendere con amore in ogni suo pensiero e atto.

E da ciò è manifesto che, come nessuno può tendere in lei se in lei non crede, così a nessuno giova crederle se in lei non tende.

LXXVIII. QUAL SIA LA FEDE VIVA E QUALE LA FEDE MORTA.

Perciò, per quanta sia la certezza con la quale si crede in una così grande realtà, tale fede sarà inutile e quasi morta se non sia resa forte e viva dall'amore. Infatti la fede accompagnata dall’amore corrispondente non è certo oziosa, quando le si presenti l'occasione di operare, ma si esercita in gran numero di opere, cosa che non potrebbe fare senza amore; e questo si dimostra anche solo riflettendo che chi ama la somma giustizia non può disprezzare nulla di giusto e non può ammettere nulla di ingiusto. Dunque, siccome chi compie un’azione dimostra di avere in sé la vita senza la quale non agirebbe, non a torto si dice che la fede operosa vive, perché ha la vita dell'amore, senza la quale non opererebbe, e che la fede oziosa non vive, perché le manca la vita di quell'amore che non le permetterebbe di oziare. Perciò, se cieco si chiama non solo chi ha perduto la vista, ma anche chi non l’ha mai avuta, mentre dovrebbe averla, perché non si dovrebbe dire similmente morta la fede senza amore, non perché abbia perduto la sua vita, cioè l’amore, ma anche quando non ha mai avuto quell'amore che dovrebbe aver sempre? Come dunque «la fede che opera attraverso l’amore» (Gal., V, 6) si dimostra viva, così si dimostra morta quella che ozia nel disprezzo. Si potrebbe dunque dire con sufficiente esattezza che la fede viva erede in ciò che si deve credere, mentre la fede morta crede solo ciò che si deve credere.

LXXIX. COME POSSONO ESSERE NOMINATI I TRE CHE SONO LA SOMMA ESSENZA.

Abbiamo visto che ogni uomo deve credere in una ineffabile trina unità e una trinità. Una e unità per l’unica essenza, trina e trinità per tre. non so come dire. Potrei dire infatti trinità per il padre, il figlio e il loro spirito — che sono tre — ma non posso esprimere con un solo nome ciò in cui sono tre, dicendo per esempio: per le tre persone, come dico unità per l’unica sostanza. Non si possono infatti ritenere tre persone, perché persone distinte sussistono separate fra loro, si che debbono esserci tante sostanze quante sono le persone, come si vede nei diversi uomini, nei quali tante sono le sostanze quante le persone.

Quindi nella somma essenza, come non ci sono diverse sostanze, così non ci sono diverse persone. Se uno dunque vuol parlare di ciò con qualcuno, cosa dirà che sono i tre: padre, figlio e loro spirito, se non sceglierà, costrettovi dalla mancanza di un nome che loro propriamente convenga, uno di quei nomi che non potrebbero esser detti al plurale nella somma essenza, per significare ciò per cui gli manca il nome adatto ? Dirà per esempio che quella mirabile trinità è una sola essenza o natura e tre persone o sostanze. Questi due termini infatti sono quelli che meglio si adattano a significare la pluralità della somma essenza, perché persona si dice solo una natura razionale individua e sostanza si dice principalmente di individui che esistono in un certo numero. Gli individui, infatti, soprattutto sottostanno a — ossia fanno da soggetto a — gli accidenti, e perciò ricevono più propriamente il nome di sostanze. Quindi vedemmo già prima che la somma essenza, che non è soggetto di nessun accidente, non può propriamente dirsi sostanza, a meno che per sostanza non si intenda essenza. Per questo motivo di necessità, la somma e una trinità o trina unità può esser detta, senza dar luogo a riprensione, una unica essenza e tre persone o sostanze.

LXXX. LA SOMMA ESSENZA DOMINA TUTTO, GOVERNA TUTTO ED È IL SOLO DIO.

Sembra dunque, anzi si deve affermare senza esitazione, che ciò che è chiamato Dio esiste e che solo a questa somma essenza si dà propriamente il nome di Dio. Chiunque infatti dice che esiste un Dio, uno o più, non intende indicare con questo nome se non una sostanza che ritiene superiore a ogni natura che non sia Dio, che deve essere venerata dagli uomini per la sua eminente dignità e deve essere invocata contro ogni imminente necessità. Ora, cosa vi è di tanto venerando per la sua dignità, che cosa deve esser tanto pregato in ogni occasione quanto lo spirito sommamente buono e potente, che domina tutto e tutto governa ? Poiché infatti si è concluso che tutte le cose sono state create e sussistono dalla sua onnipotenza, sommamente buona e sapiente, sarebbe troppo assurdo pensare che egli non domini le cose che ha create, o che le cose da lui create siano governate da un altro meno potente e meno buono, o non siano governate da nessuna ragione, ma solo dalla inordinata volubilità del caso. Egli solo infatti è colui per il quale ogni cosa ha il bene, senza il quale nulla ha bene: da lui, per lui e in lui sono tutte le cose.

Poiché dunque egli solo è, non soltanto creatore buono, ma anche dominatore potentissimo e governatore sapientissimo di tutte le cose, è di suprema evidenza che egli solo è colui che ogni altra natura deve venerare amorosamente e amare con venerazione, con tutte le sue forze; egli solo è colui dal quale si può sperare prosperità e nel quale ci si può rifugiare nell’avversità; lui solo è colui che deve essere supplicato in ogni occasione.

Egli è dunque veramente non solo Dio, ma anche l’unico Dio ineffabilmente trino e uno.